Se non avete ancora letto Perfetto (La Trilogia di Lilac #1)
e Segreto (La Trilogia di Lilac #2), state lontani da questo post.
F.R. 983 (La Trilogia di Lilac #2.5) è una novella che ha
(anche) Baguette come protagonista. Gli eventi del Presente sono raccontati da
lei, mentre quelli del Passato sono narrati in terza persona.
F.R. 983 è importante e necessaria per
chi intende leggere Infinito (La Trilogia di Lilac #3). Nell’ultimo libro della
trilogia si parlerà, infatti, di avvenimenti descritti nella novella. La novella stessa, in un certo senso, è il punto di partenza per Infinito.
(Quando arriverete alla fine capirete il perché delle mie parole, promesso.)
Il Presente inizia immediatamente dopo la fine di Segreto.
Se non ricordate dove finisce la parte di Baguette, in quel libro, vi consiglio di rileggere
il capitolo 47.
F.R. 983 rimarrà online per sempre, e sarà per sempre
gratuita. Avvisate, quindi, chi non ha letto la versione “speciale” di
Segreto: da oggi chiunque può leggere la novella.
Per quanto riguarda il contenuto, cosa posso dire? Nulla,
chiaramente :D
Vi auguro una buona lettura. Lasciate un commento alla fine
del post se volete, e/o una recensione su Goodreads.
GRAZIE fin da ora :)
GRAZIE fin da ora :)
© 2013 Alessia Esse. Tutti i diritti riservati.
Quando Rita mi si avvicina, so già cosa vuole
dire: dobbiamo fermarci, dobbiamo trovare un posto in cui accamparci per
assistere Stefania. Non siamo abbastanza vicini a Pontenero per poter
proseguire, quindi dobbiamo interrompere il viaggio.
Non capisco bene l’italiano, ma il grido di
Stefania – la ragazza che dopo la partenza da Borgo Grappa ha iniziato ad avere
qualche crampo – è stata comunque comprensibile.
Rita appoggia una mano sul sedile, accanto
alle mie spalle, e si piega verso di me.
“I dolori di Stefania sono sempre più forti.
Abbiamo bisogno di fermarci.”
Visto?
Sento la voce di Irene, che dice a Stefania –
assieme alle altre – di respirare e di rimanere tranquilla.
Sono tutte così, le donne incinte? Gridano
allo stesso modo? Soffrono il dolore allo stesso modo? A casa della Vecchia ho
letto che i dolori del parto sono simili a quelli delle fratture ossee.
“Baguette, hai sentito cosa ho detto?”
“Sì,” rispondo, continuando a guardare la
strada. Afferro il walkie-talkie e premo uno dei pulsanti per aprire la comunicazione.
Thomas,
dimmi che il dottore è sveglio.
No, dice lui dopo
qualche istante. Avrebbe dovuto svegliarsi
quando… No, aspetta. Credo si stia svegliando. Sì. Si sta risvegliando.
Bene.
Dobbiamo fermarci. Una delle donne di Roma sta per partorire.
Adesso? La nuova voce è
quella di Eloise, alla guida del camion che segue l’autobus. Dove possiamo fermarci, Baguette?
Già, dove? La strada che stiamo percorrendo
passa in mezzo ad un bosco. Non vediamo una casa da almeno un’ora.
“Fra trecento metri c’è un bivio,” interviene
Irene, avvicinandosi. “Una volta lì, gira a destra e continua per un chilometro.
Inizierai a vedere delle case. Ci fermeremo in quel punto.”
Ripeto le sue parole a Thomas e a Eloise e
guardo Rita arretrare verso i sedili su cui Stefania è distesa. Irene rimane al
mio fianco, invece. In silenzio. A guardarmi.
“Che c’è?” chiedo dopo aver raggiunto il
bivio e aver svoltato a destra. I miei occhi sono sulla strada.
“Questo non è il primo parto a cui ci
prepariamo,” risponde. “Wilson è molto esperto, e-“
“Wilson uccide le bambine,” ribatto,
stringendo il volante fra le mani.
“Stefania è all’ottavo mese. Sappiamo già che
sarà un maschio.”
“Oh. Che sollievo.”
“Voglio solo dirti che andrà tutto bene.
Questa non è la sua prima gravidanza. Non impiegheremo molto per-“
“Non mi importa,” sbotto. “Non sono
interessata alle gravidanze, non voglio avere figli, non mi importa del bambino
che sta per nascere.” Faccio un grosso respiro e aggiungo: “Posso continuare a
guidare senza essere disturbata?”
Irene non dice nulla per un lungo minuto.
“Tua madre è morta, vero? Si chiamava Juliette, se non sbaglio. Non eravamo
amiche, ma-“
Le sue parole sono interrotte da un’altra
voce.
“Baguette. Baguette.”
Jonah cammina svelto, con un cucciolo fra le
braccia. Si ferma accanto a Irene. I suoi occhi sono sgranati.
“Quella signora sta male. Emilio ha detto che
nella sua pancia c’è un altro bambino, e ora il bambino vuole uscire, e il dottore
deve tagliarle la pancia, così il bambino può nascere. P-Però il bambino è
piccolo, non è come noi. E’-E’ vero?”
“Emilio dice un mucchio di sciocchezze,” dico
subito, per non farlo spaventare ulteriormente. “Perché non resti qui con me
mentre la maestra va a dare una medicina a Stefania per farle passare i dolori?
Ti va?”
Jonah sposta lo sguardo su Irene, che
annuisce. “Rimani qui con Baguette, d’accordo? Fra qualche istante ci fermeremo
e Stefania starà meglio, te lo prometto.”
“Fra le cose che Vega G ci ha dato ci sono i
kit per le donne incinte,” le dico quando Jonah si accomoda su un sedile
accanto alla porta dell’autobus. “Sai come usarli?”
“Sì,” risponde. “Me l’hanno insegnato alle
Scuole di Base. Lo fanno ancora?”
Muovo la testa in senso affermativo. “Inizio
a vedere le case,” dico, indicando il panorama davanti all’autobus. “Le donne
possono prepararsi a scendere.”
Irene rimane per dirmi quale strada prendere
per raggiungere un quartiere in cui potremo fermarci. Vorrei chiederle come fa
a conoscere questo posto, più vicino a Pontenero che a Roma, ma un vecchio
cartello stradale risponde per lei: siamo a Napoli.
“Andrà tutto bene,” mi dice prima di andare
verso il retro dell’autobus.
“Certo, certo,” ribatto con stizza. Con
rabbia, forse.
A volte penso che non esista una frase più
inutile di ‘Andrà tutto bene’, soprattutto in casi come questo. E’ solo un
tentativo di infondere ottimismo in situazioni disperate. Non c’è nulla di
sicuro in ‘Andrà tutto bene’. Come puoi essere certa che tutto andrà bene?
Quali prove hai?
Come posso credere che per Stefania e per il
suo bambino non ci saranno problemi?
Coral ha perso tutti i figli che lei e Mister
hanno cercato di mettere al mondo. La sorella di Anna è morta durante il parto.
Nel nuovo mondo, migliaia di donne muoiono ogni giorno per dare alla luce una
bambina.
Non ci sono certezze, neanche con il kit
fornito dall’USP per monitorare la gravidanza e rendere il parto indolore. Per
cui ‘Andrà tutto bene’ è una frase inutile, che non ha un vero significato.
“Baguette?” Jonah sussurra il mio nome
sporgendosi in avanti, continuando a stringere il cucciolo bianco e nero fra le
braccia. “Emilio ha detto che la signora incinta può morire. E’ vero?”
“No.”
“E il dottore non dovrà tagliarle la pancia?”
“No,” dico facendo una smorfia.
Arrivo nel punto di cui Irene ha parlato, e rallento
fino a frenare con delicatezza sul cemento. L’auto rossa con a bordo Thomas e
l’Inglese si ferma alla mia destra. Il camion guidato con Eloise rimane
indietro.
“Andrà tutto bene,” dico con un sorriso a
Jonah.
Lui sembra titubante, ma annuisce.
Sarà anche una frase inutile, ma ‘Andrà tutto
bene’ ha un suo scopo. Infondere ottimismo, da un lato, e farsi forza,
dall’altro. Non ho certezze, ma voglio averle. Non sono ottimista, ma voglio
che Jonah lo sia.
E’ un’illusione. Un’illusione che conosco fin
troppo bene.
***
Passato
“Come fai a sapere che andrà tutto bene,
mamma?”
Margot Riford guida lungo la strada di
Malorai che porta all’ospedale. Seduta accanto a sé, con le mani ferme sul
pancione, c’è sua madre Juliette. Voleva essere lei a guidare, ma Margot ha
insistito. La donna non sa che negli ultimi venti giorni Margot ha percorso più
volte il tragitto casa-ospedale, cercando di migliorare il tuo tempo personale
e riuscendoci, proprio tre giorni fa.
“Come puoi esserne certa?” insiste la
dodicenne bionda.
Juliette le sorride. “Per una donna che ha
già avuto una bambina, la possibilità di complicazioni durante la seconda gravidanza
diminuisce del 68%. Sessantotto, Margot. Tantissimo. Negli ultimi tre mesi,
all’ospedale di Malorai ci sono state solo gravidanze positive, sia per le
madri che per le bambine. Quindici successi su quindici. Lo stesso trend si è
registrato anche nella nostra regione. Se dico che andrà tutto bene, è perché
ne sono certa. I numeri non mentono.”
Margot sa che le parole di sua madre sono
vere. Juliette non affida mai nulla al caso, e prima di decidere di dare una sorella
alla sua primogenita ha pensato e ripensato più volte ai pro e ai contro.
Tuttavia Margot è preoccupata. Vorrebbe non
esserlo – ha fatto numerose prove anche per quanto riguarda ciò che avrebbe
detto a sua madre in un momento simile – ma non può farne a meno; da quando
Juliette si è svegliata e le ha detto: “Sistema il borsone nella biposto,
Baguette. Ci siamo”, lei non è riuscita a fare altro che immaginare il peggio.
Guida fino all’ingresso dell’ospedale, facendo
lo stesso tempo di tre giorni fa. Frena con delicatezza mentre l’orologio della
biposto annuncia di nuovo l’ora.
“Domani dovremo disinstallarlo,” dice
Juliette, indicando il cruscotto della vettura. “Oppure riprogrammarlo per
fargli annunciare l’ora ogni cinquanta minuti. Ogni novanta. Che ne dici?”
“Dico che sei troppo tranquilla,” esclama
Baguette, agitando le mani. “Sei sicura che la pillola abbia fatto l’effetto
giusto? Forse non avresti dovuto prenderla prima di arrivare qui. I dolori sono
molto forti?”
Margot apre lo sportello della biposto per
scendere e andare incontro alla madre, che si muove lentamente, ma senza alcuna
sofferenza sul volto.
“Prendi il borsone,” le dice Juliette. “E
comunque sì, sono sicura che la pillola abbia fatto l’effetto giusto. Non
preoccuparti, tesoro. Sto bene.”
Margot si avvia verso la porta dell’edificio
a tre piani, ma Juliette la ferma. “Non pensarci nemmeno. Le donne al di sotto
dei sedici anni non possono accompagnare le madri.”
“Voglio solo portare la tua borsa nella
camera,” dice Margot velocemente. Ha provato e riprovato anche questa
conversazione nel corso dei nove mesi. “La dottoressa Cheng sa che sarei stata
io ad accompagnarti, giusto?”
“Accompagnarmi,” le fa eco sua madre,
prendendo il borsone dalle sue mani con un movimento veloce. “Non assistermi.
Per quello ci sono le dottoresse e le infermiere.”
“Ma io voglio assistere. Lasciami entrare per
parlare con la dottoressa Cheng. E con la direttrice, se necessario. Sono certa
di poterle convincere.”
Gli occhi di Juliette, azzurri come quelli di
sua figlia, sorridono assieme alle labbra. “Baguette, torna a casa. Ti chiamerò
fra qualche ora. D’accordo?”
“No,” insiste l’altra. “Mamma, io voglio
rimanere con te. Per favore.”
Nonostante la pillola presa a casa, il volto
di Juliette non riesce a nascondere il fastidio provocato da una nuova fitta, più
forte delle precedenti.
“Che c’è? Stai male? Sta peggiorando, vero?
Resta qui, vado a chiamare la dottoressa.”
“Margot, ti prego,” dice Juliette,
afferrandola per la mano. “Non insistere. Le donne al di sotto dei sedici anni
non possono entrare in ospedale. E’ la regola, e questo non è il momento per
violare le regole, chiaro? Torna a casa, e resta lì ad aspettare la mia telefonata.”
Juliette si avvicina per darle un bacio sulla
guancia e per accarezzarle i capelli, lisci e lunghi come i suoi. “Io e Lucy
saremo qui ad aspettarti.”
Margot si aggrappa alla madre in un lungo
abbraccio, appoggiando con delicatezza la testa sul pancione. “Ci vediamo
presto, sorellina,” sussurra alla bambina che ha finora visto solo attraverso
il monitor di controllo che l’USP fornisce alle future madri per monitorare
autonomamente la gravidanza. “Ti voglio già tanto bene, lo sai?”
“Certo che lo sa,” risponde Juliette.
“Infatti non vede l’ora di uscire per conoscerti.”
La donna da un ultimo abbraccio a sua figlia
proprio quando le porte dell’ospedale si aprono. La dottoressa Cheng cammina
svelta assieme a due infermiere, una delle quali porta con sé una sedia a
rotelle.
“Voglio bene anche a te, mamma,” dice
Baguette, tenendo la mano libera di Juliette fra le sue. Si alza sulle punte
per darle un bacio sulla guancia. “Chiamami appena hai finito, ok?”
***
Presente
Thomas ha portato Stefania in una delle case
illese controllate in precedenza da Rita e Irene. L’interno è ancora arredato,
e una delle camere da letto sarà il luogo in cui il bambino nascerà. Nelle
altre abitazioni, invece, le donne di Roma stanno sistemando le loro cose.
E’ molto probabile che passeremo la notte
qui.
Controllo che l’autobus sia vuoto, e poi vado
ad aprire il retro del camion. I fori sul tetto hanno permesso agli animali di
respirare comodamente durante il viaggio, ma voglio che abbiano ancora più
ossigeno. Il sole picchia forte, e non è escluso che chieda a Thomas e ad
Eloise di aiutarmi a farli scendere. L’ambiente è fresco – grazie, tecnologia
dell’USP – ma non possono rimanere per ore fermi in un luogo chiuso.
So che Irene si aspettava che la seguissi
all’interno della casa. Non l’ha detto ad alta voce, l’ho capito dal modo in
cui mi ha guardata quando siamo scese dall’autobus.
Ma no, grazie. Non intendo assistere al parto
di Stefania. Ho affidato alla madre di Lilac il kit fornito da Vega G, e con il
dottore sveglio e attivo so che non avranno problemi a far nascere il bambino.
Osservo per mezzora gli animali impegnati a
mangiare l’erba che Rita e le guardie della Presidentessa hanno sistemato
accanto alle gabbie e quando ne ho abbastanza salgo sull’autobus per prendere
due barattoli di pillole. Li affido a Carolina, chiedendole di dare una capsula
di cibo ad ognuno. Le spiego che contiene l’equivalente di un pasto completo, nulla
a che vedere con le misere porzioni dei romani.
Durante il viaggio, Carolina si è avvicinata
più volte a me, cercando di parlarmi. Di penetrare quel muro che ancora c’è fra
di noi. So che non ha colpe per ciò che mi è successo. So che se non avesse
ubbidito a Jackson lui le avrebbe riservato il mio stesso trattamento. Tuttavia
non riesco ad addolcirmi. Forse se mi sforzassi potrei farlo, potrei abbattere
il muro e provare ad esserle amica, ma la verità è che il mio lato buono è in
letargo, adesso.
Prima di lasciarle i barattoli, trattengo
qualche pillola per me, e vado a cercare Thomas ed Eloise. Il quartiere in cui
ci troviamo è molto piccolo. Deve essere stato uno di quei posti in cui tutti
conoscevano tutti. Le case sono basse, scolorite dal tempo, con le finestre in
legno rovinato e i tetti di vecchie tegole rosse.
“Spero non sia il primo,” dico quando, dopo
dieci minuti di ricerca, trovo Eloise e Thomas in un vicolo stretto. Si stanno
baciando. “Non voglio rovinare il vostro primo bacio. Non voglio che fra
vent’anni, quando ripenserete a questo momento, diciate ‘Era tutto perfetto,
fino a che Baguette non è arrivata ad interromperci’. Quindi mentite, se
proprio dovete. Ma non ditemi che è il primo.”
Margot Riford e l’incapacità di tacere in
certi momenti: un’autobiografia.
Thomas scuote velocemente la testa. “Non hai
rovinato nulla.”
Eloise ha le guance rosse. “E’ la verità.”
“Quindi c’è già stato un bacio fra te e Occhi
di Ghiaccio,” ribatto, appoggiando le mani sui fianchi. “E non me ne hai
parlato. Tu e Lilac avete una brutta abitudine in comune, ma non sono qui per
parlare di questo. Voglio solo dirvi che andrò a fare una passeggiata con
Jonah. Posso lasciarvi a capo degli altri?”
“Non vuoi rimanere?” chiede Eloise.
“Qui? A guardarvi mentre vi baciate?”
Ora è Thomas ad avvampare.
“No,” risponde lei, sorridendo. “In casa.
Rita ha detto che non impiegheranno molto. Stefania è già-“
“Non mi interessa,” dico prima che finisca. “Con
lei ci sono il dottore e Irene. E’ un parto, non uno spettacolo ad ingresso
libero.”
Sta per dirmi qualcos’altro, ma giro le
spalle e torno alla casa dalle finestre di legno, quella in cui Stefania si sta
preparando per partorire. I bambini si rincorrono, cantando una canzone in
italiano. So che è in italiano perché non capisco neppure una parola, e per
questo li detesto.
Un po’, ma li detesto.
Jonah è fra di loro. Non canta, probabilmente
perché non conosce le parole.
Lo chiamo e lui si gira subito,
allontanandosi dagli altri quando gli faccio segno di raggiungermi.
“Tieni,” gli dico, mostrandogli una capsula
bianca. Afferro la bottiglia d’acqua dalla tracolla e lo guardo mentre manda
giù il suo pasto. “Ti va di fare una
passeggiata con me?” chiedo dopo che ha bevuto un lungo sorso d’acqua.
“Dove?”
“Non lo so. Potremmo esplorare il quartiere,”
dico, indicando le case che ci circondano. “Scoprire un tesoro.”
“Come i tesori dei pirati? Una volta papà ha
detto che nel mare ci sono i tesori dei pirati, ma io non posso andare senza un
adulto, altrimenti i pesci mi mangiano i piedi. E’ vero?”
“Se lo ha detto Michael allora è vero.”
“Michael è il mio papà.”
“Esatto. Se lo ha detto lui, allora è vero
che nel mare ci sono i tesori dei pirati. Qui però non c’è il mare. I tesori
sono quelli delle case abbandonate.”
Lui annuisce dopo qualche secondo. “Ok.
Andiamo a fare una passeggiata.”
Camminiamo per qualche minuto - ogni secondo
scandito da una domanda di Jonah sulle case, su chi le abitava, sull’erba che
spunta dai marciapiedi - fino a raggiungere la fine della stradina.
“Ho una cosa per te,” gli dico appoggiandomi
al muro. “Un piccolo tesoro. Vuoi vederlo?”
“Che cosa?” chiede, allargando gli occhi. “E’
una sorpresa?”
“Esatto.” Apro la tracolla e dal suo fondo
tiro fuori la strana trappola che lui ha costruito con l’aiuto di Coral.
“Ricordi cos’è?”
“Sì,” esclama. “Io ne ho uno uguale, lo sai?
L’ho fatto da solo, con le foglie intrecciate. Guarda.” Infila l’indice in uno
dei piccoli fori. “Fai anche tu così. Metti il dito qui.”
“Dobbiamo tirare, giusto?” chiedo dopo aver
fatto come dice.
“Sì, ma ora sei in trappola, non puoi
scappare anche se tiri il dito. Visto?” chiede, ridendo e muovendo la mano.
“Ora dobbiamo camminare così.”
Torniamo indietro - la mia mano destra legata
alla sua sinistra per mezzo del cilindro sottile - ma invece di andare dritto
guido Jonah in un’altra stradina.
“Baguette, è vero che quella signora sta
facendo nascere un bambino adesso?” mi domanda dopo un po’.
“Sì.” Raggiungiamo una piccola piazzetta che
affaccia su un dirupo pieno di vegetazione. “Però nessuno le taglierà la pancia.”
“E allora come farà il bambino ad uscire?”
“Il dottore e la maestra Irene useranno una
tecnica particolare,” dico, pronunciando le prime parole che mi vengono in
mente. “Andrà tutto bene, vedrai.”
Jonah si guarda attorno, e cammina fino alla
ringhiera che protegge la piazzetta dallo strapiombo.
“E poi, quando il bambino nasce, diventa
grande come me?”
“Esatto.”
“Baguette,” dice dopo un lungo silenzio,
“sono preoccupato.”
“Preoccupato?” Sollevo le sopracciglia. “A
sei anni non dovresti essere ‘preoccupato’. Dove hai imparato questa parola?”
“Emilio ha detto che la signora può morire,” dice
a voce bassa, invece di rispondere.
“Emilio dice un mucchio di sciocchezze, te
l’ho detto. Non devi credergli.”
“Quindi le mamme non muoiono mai?” chiede,
alzando la testa per guardarmi negli occhi.
“A volte accade,” rispondo, piegandomi sulle
ginocchia. “Ma non sarà questo il caso. Wilson e la maestra sono bravi a far nascere
i bambini.”
“Tu ce l’hai una mamma?” Libera il dito dal
cilindro e si appoggia alla ringhiera con la schiena.
“Tutti hanno una mamma.”
“La tua come si chiama?”
“Juliette,” rispondo con un filo di voce. “Si
chiamava Juliette.”
***
Passato
Dal momento in cui entra nell’ospedale di
Malorai a quello in cui Juliette Riford mette al mondo sua figlia passano circa
tre ore. Il parto avviene in maniera naturale, senza che la dottoressa Cheng e
le infermiere del reparto Procreazione debbano intervenire per aiutare la madre
o la bambina.
Juliette è fisicamente distrutta alla fine di
quelle tre ore, ma ogni dolore sparisce quando la dottoressa sistema fra le sue
braccia una bambina avvolta in un telo tiepido. Le minuscole mani sono strette
in due pugni sul petto, e le gambe sottili sono piegate verso l’alto. Il viso
della neonata è arrossato, le palpebre sono chiuse e gonfie, ma le labbra
sottili sembrano curvate in un sorriso.
“Ciao, amore mio,” sussurra Juliette a sua
figlia. “Benvenuta, tesoro. Benvenuta.”
Gli occhi della donna si riempiono di
lacrime. Appoggia le labbra sulla delicata fronte di sua figlia, che apre e
chiude lentamente uno dei due piccoli pugni, come a salutare la sua mamma.
“E’ sana, vero? Sta bene?” chiede la donna
alla dottoressa, la quale annuisce.
“Fra poco inizieremo gli esami di rito, ma il
parto è stato un successo, per cui non ho dubbi che la neonata sia in grande
forma, come sua sorella e sua madre.”
“Perfetto,” sussurra Juliette. Accarezza il
viso della bambina con il pollice destro, osservando ogni centimetro della sua
pelle alla ricerca di un’imperfezione e trovando, invece, solo tanta bellezza.
“Il suo nome è Lucy,” dice alla dottoressa. “Lucy Riford.”
“Buongiorno, Lucy Riford. Le donne di Malorai
ti danno il benvenuto nel nuovo mondo.”
Una delle infermiere si avvicina alla dottoressa.
Le sussurra qualcosa all’orecchio.
“La piccola Lucy verrà per un po’ con me,”
dice la dottoressa a Juliette. “Dobbiamo dare il via agli esami genetici.
Conosci la procedura, vero?”
“Certo. Datemi solo il tempo di rimettermi in
piedi, voglio-“
“Oh, no. La tua presenza non sarà
necessaria.”
“Come?”
L’infermiera afferra la bambina dalle braccia
di Juliette prima che la neomamma possa rendersi conto di ciò che accade.
“Torneremo fra poco,” dice la dottoressa
Cheng sorridendo. “Nel frattempo condurremo qualche esame anche su di te.”
Juliette annuisce mentre si allunga verso
l’infermiera per sistemare il telo tiepido attorno alla bambina.
“Ci vediamo fra poco, Lucy. La tua mamma
rimane qui ad aspettarti.”
L’infermiera esce rapidamente dalla stanza.
Juliette appoggia il capo sul cuscino,
stremata ma felice. “Grazie, Nadia. Grazie,” dice alla dottoressa, cercando e
stringendo la sua mano.
La dottoressa sorride di nuovo. “Adesso cerca
di riposare,” mormora, applicando un piccolo cerotto a rapido rilascio sul
polso di Juliette. “Tornerò fra poco.”
“Nel frattempo chiamerò a casa per dire a
Margot che è andato tutto bene.” Juliette muove la testa per cercare le sue
cose, ma si accorge che sono state portate via. “Voglio dirle che sto bene, che
Lucy è sana.”
Le parole sono biascicate ora, segno che il
contenuto del cerotto è già entrato in circolo.
“Glielo dirai più tardi,” dice la dottoressa,
liberandosi della mano con cui Juliette cerca di trattenerla. “Adesso devi dormire.”
“Perché?” chiede Juliette, sforzandosi di
rimanere ad occhi aperti. “Hai detto che devi fare degli esami, Nadia. Perché
mi sento come se… Che cosa c’è in quel cerotto? Non è questa la prassi.”
“Devi dormire,” ripete la dottoressa. La sua
voce è diversa da quella rilassata di poco fa. Ora è tesa, fredda.
“No,” sussurra Juliette. “Devo chiamare a
casa, Margot deve sapere che sto bene. E Lucy… Lucy...”
Il buio indotto dal potente sonnifero
l’avvolge prima che possa continuare. La dottoressa Cheng sistema un cerotto a
rilascio rapido anche sull’altro polso, prima di uscire dalla stanza.
***
Presente
Eloise grida il mio nome da lontano, ma con
così tanta forza che mi è impossibile non sentirlo.
Afferro Jonah fra le braccia e inizio a
correre. Durante il tragitto, nella mia mente si accavallano decine di scenari
orribili: Vega G ci ha fatto seguire dalle sue guardie, per prendere i bambini;
gli animali sono morti; Gianmaria e X sono risorti.
“Che succede?” chiedo affannata quando mi
fermo accanto a Eloise a Thomas.
“Stefania,” dice lei, sull’orlo delle
lacrime. “C’è un problema con il bambino. Irene e Rita hanno bisogno di te,
non-“
“Dov’è il dottore?” chiedo, lasciando andare
Jonah. “Perché hanno bisogno di me?”
“Wilson non si è ancora completamente
ripreso,” risponde Thomas. “Il bambino ha il cordone ombelicale attorcigliato
al collo. Irene ha chiesto di te.”
“Io non sono un medico. Cosa posso-“
“Baguette!” Rita si affaccia dalla porta.
“Corri. Immediatamente.”
Non voglio entrare in casa, non voglio
interessarmi al parto di Stefania, ma le donne di Roma mi guardano come se
fossi il capo. Forse lo sono. Forse, ai loro occhi, sono un leader.
E’ per questo che vado verso Rita. Perché le
donne e i bambini si aspettano che lo faccia.
Nella camera da letto in cui Thomas ha
portato Stefania, Wilson è accasciato su una vecchia poltrona piena di polvere,
e Irene è inginocchiata sul letto fra le gambe di Stefania.
“Non spingere,” le sta dicendo. “Non devi
spingere, anche se ne senti il bisogno.”
Stefania è pallida. Sta piangendo.
“Baguette è qui,” dice Rita.
Irene si volta per un secondo verso di me,
prima di indicare la sommità del letto. “Vai accanto a lei. Parlale. Io e Rita
dobbiamo liberare il collo del bambino.”
“No. Non esiste. Ci sono altre cinquanta
donne che possono farlo. Io non posso. No.”
Il volto di Irene è attraversato da un lampo
di fuoco. Per un attimo è come se vedessi la maschera a forma di teschio sulla
sua testa.
“Ho bisogno di qualcuno che sappia usare il
kit dell’USP,” dice in francese. “All’interno della scatola ci sono oggetti che
non conosco. Non so cosa fare, tu sì. Io e Rita dobbiamo occuparci del bambino,
tu dovrai occuparti di lei.”
“Wilson non riesce a stare in piedi, non
possiamo affidargli un’operazione così delicata,” dice Rita, avvicinandosi al
letto. “Abbiamo bisogno di te.”
E’ assurdo. Io non ho esperienza e non voglio
averne. Né diretta né indiretta. Sto per dire a Irene e Rita che Eloise è più
qualificata. Che lei potrà certamente aiutarle, ma Stefania allunga un braccio
verso di me.
“Per favore,” dice in italiano. Una delle
poche cose che ho imparato in queste settimane. “Il mio bambino.”
Odio che le sue parole arrivino al mio cuore.
Vorrei prendere a pugni il muro e andarmene, ma il pianto di Stefania mi incolla
i piedi al pavimento.
Ha pianto così, mia madre, prima di chiudere
gli occhi per sempre? Chi c’era con lei mentre cercava di far nascere mia sorella?
“Per favore,” ripete. “Aiutami.”
“Ok, d’accordo,” dico, agitando le mani. “Ma
sappiate che vi odio tutte.”
Il kit dell’USP contiene tutto ciò che
occorre ad una donna per partorire lontano da un ospedale. Teli sterilizzati,
guanti, cerotti a rilascio rapido per tranquillizzare la madre. E il Connettore
Materno.
“Anch’io avevo il cordone ombelicale attorno
al collo prima di nascere,” dico a Stefania quando mi avvicino al letto per aprire
il Connettore. “Tre giri, ed ora eccomi qui. Andrà tutto bene.” Dalla
confezione sterile prendo il Connettore Materno. Sistemo una delle estremità
sulla tempia umida di Stefania, e passo l’altra a Irene. “Attacca questa
estremità sul bambino.”
Afferro uno dei cerotti, e lo applico sul
polso di Stefania.
“Il cerotto ti calmerà,” le dico in inglese,
“e il Connettore trasmetterà la tua calma al bambino. Non sono solo i vostri
corpi ad essere connessi, Stefania, ma anche le vostre menti. Il Connettore lo
permette. In questo momento tu e il tuo bambino siete una cosa sola. Ora voglio
che tu prenda la mia mano e ti concentri. Irene sa cosa sta facendo. Lei e Rita
lavoreranno sul cordone ombelicale, e quando il collo di tuo figlio sarà libero
potrai riprendere a spingere. Chiaro?”
Alle mie spalle, Irene e Rita parlano in
italiano. Non ho idea di cosa stiano dicendo, ma spero che si sbrighino.
“Non spingere,” dico a Stefania quando il suo
volto si trasforma a causa del dolore. “Non ancora. Rilassati, lascia lavorare
il cerotto. Respira con calma. Tranquilla, ok? Andrà tutto bene.”
La sua mano è stretta attorno alla mia.
“Come lo chiamerai?” domando, usando la mano
libera per allontanare il suo viso da Irene. Non c’è bisogno che noti il
colorito bluastro della testa di suo figlio. “Hai già scelto un nome?”
“N-no,” dice in un mezzo singhiozzo. “Io non…
Non sono le madri a scegliere i n-nomi. E’ Gianmaria,” dice fra i denti. “E’
lui che-“
“Beh, da oggi Gianmaria non sceglierà più i
nomi. Voglio che pensi al nome del tuo bambino, ora. Che sia tu a sceglierlo.
Immagina il suo viso, e dagli un nome. Fallo per me, andiamo.”
Mi rendo conto che il cerotto sta facendo
effetto perché la presa attorno alla mia mano diventa più lenta, e i segni del
dolore fisico spariscono dal suo viso.
“A che punto siamo?” chiedo in francese a
Irene.
“Ci siamo quasi,” risponde per lei Rita. “Ora
dobbiamo solo… Ok, fatto. Fatto!”
Sorridono entrambe, quando la testa del
bambino riprende subito un colorito normale.
“Adesso può riprendere a spingere,” mi dice
Irene. “Sorreggile le schiena, e continua a dirle che andrà tutto bene.”
Faccio subito come dice. Porto via il cerotto
a rilascio rapido e mi sistemo dietro le spalle di Stefania; sostenendola, lasciando
che mi stritoli le falangi.
“Puoi farcela. Sei forte, Stefania. Puoi
farcela.”
Non so per quanto tempo resto dietro di lei a
parlarle. Non so neppure in che modo riesca ad infonderle coraggio e ottimismo,
ma succede. Un miracolo.
Ad un certo punto vedo il piccolo corpicino
fra le mani di Irene. Lei e Rita sono commosse, e parlano velocemente a Stefania.
Probabilmente per dirle che tutto è andato come si deve.
Passano pochi istanti - il tempo di rendermi
conto che anche il mio viso è bagnato a causa delle lacrime - e ci rendiamo
tutte e quattro conto che c’è qualcosa di relativamente strano nella creatura
che Stefania ha appena fatto nascere. Non è un bambino, come tutti ci
aspettavamo.
E’ una bambina.
***
Passato
Juliette prova ad aprire gli occhi quando
sente le voci. Ci prova, ma le palpebre sembrano essere incollate fra di loro.
E’ ancora in ospedale, una delle voci
appartiene alla dottoressa Cheng. Le altre sembrano nuove, invece. Non riesce a
riconoscerle.
Juliette prova di nuovo a sollevare le
palpebre, e al quarto tentativo – dopo un minuto o dopo un’ora – ci riesce. La
vista è appannata, ma è in grado di mettere a fuoco le sagome di quattro donne.
Una vestita di bianco. Due di nero. L’altra, più bassa, indossa qualcosa di
colore viola.
Juliette muove le labbra. Prova a parlare.
“N-Nadia. Dov’è Lucy? M-Margot. Le mie bambine. Che cosa… Che cosa hai fatto?
Le mie… Le mie…”
La dottoressa si avvicina al letto.
Juliette avverte un pizzico freddo sul polso,
e i suoi occhi si chiudono di nuovo.
***
Presente
Irene è l’unica che riesce a trovarmi.
Dopo aver mostrato a Rita come utilizzare la
parte del kit relativa agli esami per la bambina e a quelli per la madre, sono
uscita dalla casa e sono andata via. Ho ignorato i visi e le voci delle donne
di Roma, che mi chiedevano come fosse andato il parto. Ho ignorato Eloise, mi è
venuta dietro fino a quando Thomas le ha detto di lasciarmi stare (grazie,
Thomas).
Ho cercato un posto lontano dalla felicità
altrui, ma Irene riesce a trovarmi.
Si siede al mio fianco, sotto un albero dal
tronco enorme.
“Non voglio parlare,” le dico strappando fili
d’erba. “Se sei qui per farmi parlare, puoi tornare dagli altri.”
Lei non dice nulla.
“E comunque quel kit è identico a quello che
hai imparato ad usare a scuola a dieci anni. Non è mai cambiato da quando l’USP
l’ha creato. Per cui so cos’hai cercato di fare quando mi hai fatta chiamare.
Brava,” dico, battendo le mani due volte per inscenare un applauso. “Sei un
genio. Bravissima.”
Irene continua a tacere.
“Io odio queste cose. Non voglio essere
coinvolta. Ho fatto tanto per rimanerne fuori, e poi… Lilac lo sa, se è questa
la tua paura. Sa che non voglio figli. Perché uno dovrebbe volerne, in fondo?
In questo mondo, in queste condizioni. Mille pericoli, mille problemi.”
Strappo un ciuffo d’erba con più forza,
portando via anche una piccola zolla di terra che si sbriciola sui miei
pantaloni.
“Hai cercato di farmi cambiare idea, l’ho capito,
ma non voglio che queste cose mi riguardino. Non sono Stefania, non sono una
madre. Non la conosco, così come non conosco le altre donne di Roma. Carolina
avrebbe potuto farsi stringere la mano al mio posto.”
Piego le gambe verso l’alto, e appoggio il
mento sulle ginocchia.
“Sei qui per dirmi che dovremo accamparci per
la notte? In tal caso sappi che l’avevo già immaginato, ma non-“
“Tu sei una vigliacca.”
Irene muove la testa per trovare i miei
occhi, e ripete ciò che ha appena detto.
“Tu sei una vigliacca e una bugiarda.”
“Che cosa? Che cosa hai detto?”
“Hai sentito bene cosa ho detto. Neanche sei
ore fa mi hai detto che tu e Lilac dovete cambiare il mondo, ma era una bugia,
vero? Perché ciò che dici adesso, il modo in cui ti stai comportando non può
appartenere a quella donna sull’autobus. Sei una vigliacca, Baguette.”
Le sue parole mi fanno rabbia.
“Pensa quello che vuoi,” dico, stringendo i
pugni. “Tu non mi conosci. Tu non sai cosa ho vissuto. Tu non-“
“Io so che lì,” dice indicando le case, “ci sono
delle donne che hanno messo la loro vita e quella dei loro figli nelle tue mani.
Sono donne spaventate e insicure, che hanno bisogno di qualcuno che le guidi, di
qualcuno che sappia cos’è il coraggio. Hanno bisogno di qualcuno in grado di
mettere da parte i demoni del passato, Baguette, e di guardare al futuro. Pensi
che i giorni che verranno saranno fatti di musica e caramelle? Pensi che
assistere ad un parto sia la cosa più complicata in questo mondo? Se è questo
il tuo atteggiamento, se pensi di essere superiore a questo mondo e a quelle
donne dimmelo ora, per piacere. Perché non intendo lasciarle nelle tue mani.
Non intendo lasciare mia figlia nelle
tue mani.”
Lo sguardo che le lancio è di odio puro. “Con
che coraggio parli di Lilac. Tu,” dico, puntandole un dito contro. “Proprio tu,
che l’hai abbandonata.”
“Vuoi fare a gara a chi ha più colpe nei suoi
confronti? Vinco io, non credere che non lo sappia.”
Irene inclina la testa sulla spalla destra.
Un gesto che mi ricorda Francesca.
“Nulla riporterà indietro tua madre,” dice
con calma. “Né il rancore che covi dentro, né la paura. Pensi che lei volesse
questo per te? Pensi che ti vorrebbe debole e spaventata come sei ora?”
“Io non saprò mai quello che Juliette voleva
per me. Sai perché? Perché non me l’ha mai detto! Perché le sue ultime parole
per me sono state ‘Vai a casa’. Tu vuoi che io sia felice per Stefania, ma
perché devo esserlo? Perché devo essere felice per qualcosa che a me è stato
negato? Per qualcosa che non avrò mai? Perché devo interessarmene?”
“Perché è solo così che potrai combattere
Vega G,” dice lei, prendendomi per mano. “Perché è solo così che potrai affrontare
gli ostacoli che ti si presenteranno davanti. E credimi, Margot: ci saranno. Se
volti le spalle al dolore non fai altro che renderlo più forte, quando invece
devi essere tu a diventarlo.”
“Quindi cosa dovrei fare, dimenticare mia
madre?” chiedo, con la voce che trema e gli occhi pieni di lacrime.
“Dimenticare la sorella che non ho mai visto, dimenticare che-“
“Per essere forti non bisogna dimenticare,”
ribatte, prendendomi per mano. “Pensi che io sia diventata Brunelleschi dimenticando
Lilac e Michael? E’ grazie all’amore per loro che ho resistito. E’ per mia
figlia che sono andata avanti. Non devi dimenticare Juliette, e non devi
dimenticare tua sorella. E non puoi voltare le spalle al dolore che la loro
morte ha provocato. Devi cavalcarlo, come un’onda agitata. Devi utilizzarlo per
crescere, per raggiungere l’obiettivo tuo e di Lilac. Quel dolore deve essere
la base del tuo coraggio, altrimenti tua madre e tua sorella saranno morte
invano.”
Mi giro verso il tronco per nascondere le
lacrime, ma so che ad Irene non sfuggono.
“Io non sono una vigliacca,” le dico dopo un
lungo momento. “So che incontrerò tanti ostacoli, e ho intenzione di superarli.”
“E io ho intenzione di aiutarti a farlo,”
dice lei annuendo, “ma ho bisogno che tu rimanga di fronte all’ostacolo per
affrontarlo. Senza scappare, senza farti condizionare dal passato.”
“D’accordo. Va bene.”
“Ne sei convinta? O lo dici solo per
accontentarmi?”
“Lo dico perché è la verità,” rispondo. “Non
sono una vigliacca e non voglio che il dolore mi costringa ad esserlo. Sono
arrabbiata, però; sono piena di rancore, e questo impiegherà di più per sparire.”
“La rabbia può essere incanalata in qualcosa
di positivo,” dice lei. “Io ne so qualcosa.”
“Grazie,” sussurro. “Sia per quello che hai
detto, sia per il modo in cui l’hai detto.”
Irene annuisce. “So che sei stata felice di
assistere al parto di Stefania, e che la nascita della bambina ti ha commossa.
So che cerchi di mostrarti indifferente, ma in realtà non lo sei.”
Scrollo le spalle, passando il dorso della
mano sulla guancia per asciugare il viso.
“Forse non mi sono commossa per la nascita.
Forse le lacrime sono state solo la conseguenza della presa sulle mie dita.
Vedi,” dico, mostrandogliele, “credo che questo sia un livido.”
Irene sorride. “La bambina è sana. Tutti i
test che Rita ha eseguito hanno avuto esito negativo.”
“Bene. Ho notato che ha un mucchio di
capelli, e si muove come se volesse ballare. Avete già dato le vitamine a
Stefania? Sono nel kit, e nell’autobus ne abbiamo quindici barattoli. Tre
capsule al giorno per il primo mese, e poi due fino al terzo e poi una fino al
sesto.”
“Sì. Ora stanno riposando entrambe.”
“Il dottore?”
“Dorme anche lui. Le mie erbe hanno avuto un
effetto potente su di lui.”
“Come ha fatto a non rendersi conto che
Stefania aspettava una bimba?” domando. “Che cosa sarebbe successo se avesse
partorito a Roma?”
“A volte capita che l’ecografia dia un
risultato errato. Accadeva anche prima della Sindrome.”
“E’ accaduto altre volte a Roma?” chiedo,
scrutando i suoi occhi alla ricerca di una risposta che non arriva subito.
“Sono nate delle bambine per errore, vero?”
Lei annuisce.
“Le hanno uccise,” sussurro. “Wilson le ha
uccise.”
Irene scuote la testa. “Wilson ha ubbidito
agli ordini, come ogni cittadino. Non era sua, la scelta.”
“Quante?” dico, battendo velocemente le
palpebre per non cedere di nuovo al pianto.
“Otto.”
Abbasso gli occhi sull’erba, e rimango così a
riflettere.
“Torniamo dagli altri,” le dico ad un tratto.
“Oggi è un giorno di festa. Di vera festa. Dobbiamo festeggiare.” Mi alzo in
piedi, e allungo la mano verso di lei per aiutarla a fare la stessa cosa.
“Festeggiare?”
“Sì. Abbiamo la libertà, una nuova vita e uno
stereo pieno di musica. Abbiamo parecchie ragioni per essere felici.”
Il mattino dopo ci rimettiamo in viaggio per
Pontenero.
Le donne sono serene, e a turno si alzano dai
loro posti sull’autobus per venire in avanti, verso il sedile più comodo,
quello che ospita Stefania e sua figlia.
Eloise mi precede, nell’auto assieme a Irene
a al dottore. Thomas è alla guida del grande camion alle nostre spalle.
La festa di ieri sera ha messo tutti di buon
umore. Abbiamo cantato e ballato attorno ad un fuoco acceso da Rita e
Mariagrazia. E anche se Stefania e la sua bambina sono rimaste in casa e hanno
dormito per tutto il tempo, è stato come se anche loro fossero con noi.
La loro gioia si è estesa anche a noi,
superando il dolore e i brutti ricordi, le ferite e le paure.
Ho giocato con Jonah, e l’ho osservato mentre
faceva provare ai suoi amici la trappola che ha costruito con Coral nella
caverna. Ho finto di non vedere i baci dolci e impacciati di Eloise e Thomas. Ho
mangiato per la prima volta un uovo sodo, assieme a Irene e Rita.
E ho pensato a mia madre e a mia sorella.
Penso a loro anche adesso che l’autobus si
muove con calma verso Sud. Mi dico che sì, “Andrà tutto bene” è una frase
inutile, ma forse anche Juliette lo sapeva, e il suo discorso durante il
viaggio verso l’ospedale non aveva alcun fondamento statistico.
Mi ha detto che sarebbe andato tutto bene
perché sono quelle le parole che dici a tua figlia per evitare che abbia paura.
Per evitare che pensi al peggio. E forse è proprio quella la sua eredità per
me.
Non
avere paura, Margot. Andrà tutto bene.
***
Passato
Stavolta, quando Juliette riapre gli occhi,
si accorge che c’è qualcuno alla destra del letto.
Una guardia dell’USP. Indossa un vestito
nero, lungo fino al ginocchio e aderente, dotato di un cappuccio che copre la
testa e i capelli.
“Il suo nome è Celeno. Tecnicamente è F.R.
955, ma Celeno è molto più semplice. E’ una delle mie guardie personali.”
Juliette sposta la testa per seguire la voce.
Alla sua sinistra, con addosso un cappotto viola, c’è Vega G.
“Lasciaci pure,” dice la fondatrice dell’USP
alla guardia. “Voglio parlarle in privato.”
“Certo, Presidentessa.”
Celeno, alta e magra, cammina a passo svelto
e composto verso la porta.
Juliette osserva le finestre che affacciano
sulla strada, e nota che il cielo è completamente buio.
“Che ora è? Che cosa è successo? Come…”
Prova a mettersi seduta, e ci riesce con
fatica. Si sente debole, e non sa se è a causa del parto o del sonnifero che la
dottoressa le ha dato contro la sua volontà.
Si volta verso Vega G, che se ne sta in
piedi, con le mani raccolte in corrispondenza dello stomaco e gli occhi
truccati di verde acido. L’unica luce nella stanza è quella che proviene da una
piccola lampada appoggiata sul comodino.
“Come ti senti?” La voce di Vega G, calma e
profonda, è la voce di chi esige una risposta.
“Perché è qui, Presidentessa? Che cosa sta
succedendo? Nadia… Dov’è-“
“La piccola Lucy è in compagnia della
dottoressa Cheng,” risponde Vega G. “Margot Riford è nella vostra abitazione di
via Melanne. Da sola. Stanno entrambe bene,” aggiunge, appoggiando la mano
coperta da un guanto bianco sulla spalla di Juliette.
“Perché è qui? Perché non sono stata dimessa?
Voglio chiamare Margot. Voglio-“
“Sono qui per farti delle domande. Se le tue
risposte mi piaceranno, potrai tornare a casa da Margot assieme alla bambina
nata questa mattina. Tutto chiaro?”
“N-no,” dice Juliette, confusa. “Che cosa
vuole chiedermi? Che cosa…” Afferra un bicchiere pieno d’acqua dal comodino e
lo manda giù in due sorsi, reggendolo con due mani perché teme di farlo cadere.
Cerca di pensare velocemente mentre beve, e ci riesce con un altro grande
sforzo.
Vega G si allontana per afferrare una sedia e
portarla accanto al letto. Si accomoda e accavalla le gambe, seguendo i
movimenti di Juliette fino a quando il bicchiere torna vuoto sul comodino.
“Juliette, sai cosa succede alle donne che
violano i decreti dell’USP? Nello specifico, quelli relativi agli oggetti
proibiti?”
“Co-Come?”
“Rispondi alla mia domanda, donna di
Malorai.”
“Sono un tecnico informatico,” dice Juliette.
“Al mio laboratorio arrivano centinaia di oggetti proibiti ogni anno, quindi
sì, conosco bene la normativa. Ogni settimana devo catalogarli e consegnarli
alle guardie della regione, che provvederanno ad inviarli a Parigi per farli
distruggere.”
Vega G annuisce. “Questa è la normativa, ma
sappiamo entrambe che le cose non vanno sempre così, giusto?”
Juliette impallidisce.
“Eri curiosa, vero? Lo capisco,” dice la
Presidentessa sorridendo. “Gli oggetti proibiti possono apparire più
interessanti, e nel tuo lavoro la curiosità è importante, suppongo. Motori ad
aria, tablet, l’intero impianto energetico di Malorai. Ti occupi brillantemente
di tante cose, quindi è plausibile che fra i tuoi interessi ci sia anche ciò
che non è consentito.”
“Non accadrà più,” dice subito Juliette,
scuotendo la testa. “Glielo giuro, Presidentessa. Non accadrà più. Consegnerò
alle guardie regionali ogni oggetto proibito che ho tenuto al laboratorio, e-“
“Lo so, Juliette. So bene che non accadrà
più. Tranquilla. Non sono qui per interrogarti su un paio di iPod e una vecchia
stampante.”
“Allora perché-“
“Dodici anni fa, nel mese di Settembre, hai
inviato un ordine al Magazzino Energetico di Bruxelles, ricordi?”
“A Bruxelles?” domanda Juliette per prendere
tempo. “No. Non credo.”
“Era un ordine riguardante schede di
memoria,” dice la Presidentessa. “Saltò all’occhio del Controllo Interno per
due ragioni. Primo, all’epoca dell’ordine eri incinta, e alle donne incinte è
vietato lavorare sugli impianti energetici. Secondo, non si trattava di
materiale legato all’energia solare, ma a quella corporea. In disuso da almeno
vent’anni. Le mie domande sono queste, dunque: Perché hai fatto quell’ordine? A
cosa ti sono servite quelle due schede di memoria attivabili tramite il calore
corporeo?”
“Io… Io non ricordo.”
“Non ti credo,” ribatte la Presidentessa con
calma. “Il tuo ordine è l’unico in tutta la Francia da quando l’energia solare
ha soppiantato definitivamente quella corporea. Come puoi non ricordare? Hai
bisogno di un incentivo? Eccone uno: gli oggetti proibiti che hai trattenuto
nel corso degli anni… e il carcere di Parigi.”
“No!” esclama subito Juliette. “No,
Presidentessa. No. Le sto dicendo la verità, non-“
“Non ti credo!”
Vega G si alza dalla sedia e chiude la parte
bassa del viso di Juliette in una mano, stringendo in corrispondenza delle
labbra fino ad ottenere un lamento di dolore.
“Voglio la verità, Juliette Riford,” sibila.
“E siccome oggi mi sento buona, ti darò un altro incentivo: le donne credono
che la procreazione femminile sia rischiosa per la madre e per la bambina, e in
realtà lo è, ma una o due volte su dieci. Non cinque o sei come vi facciamo
credere. Sai dove vanno le donne che vengono date per morte dopo il parto? Sai
che fine fanno?”
Juliette non riesce a parlare, e non solo
perché la Presidentessa glielo impedisce con la sua presa. I suoi pensieri sono
congelati dalla paura.
“Fanno la fine che farai tu se non mi dirai
la verità. Fanno la fine che spetta alle donne che violano le direttive. Che
cosa hai fatto con quelle schede?” chiede a denti stretti, lasciando andare la
presa. “Cosa hai costruito?”
“Nulla, lo giuro,” balbetta Juliette fra le
lacrime. “Fui io ad ordinarle, ma fu la dottoressa Zinna a richiederle. La farmacista
di Malorai, Francesca Zinna. Non a-aveva accesso a quel tipo di materiale
energetico con la s-sua licenza, e per questo chiese a me di inviare l’ordine.
E’ la verità,” continua, con il cuore in gola. “Lo giuro, Presidentessa. E’ la
verità.”
“Perché? A cosa le servivano?”
“D-Disse che voleva potenziare un tablet per
regalarlo a sua figlia, che in quei mesi si trovava a Londra.”
La Presidentessa la osserva con
un’espressione carica di disprezzo. “L’aiutasti a creare due tablet alimentati
per mezzo del calore corporeo, non è vero?”
“No, no. Lo giuro. No. Mi limitai ad
acquistare le schede per lei,” dice Juliette piangendo. “Mi pagò con un mucchio
di soldi, e io li accettai senza fare domande. Pensai alla bambina che portavo
dentro: se fossi morta durante il parto, le avrei lasciato qualcosa per andare
avanti. Non sto mentendo. Lo giuro. Lo giuro.”
Vega G accenna un sorriso. “Per ora basta
così,” mormora. “Riprenderemo la conversazione molto presto.”
“Cosa… Cosa significa? Perché? Le ho detto la
verità, non so altr-”
La Presidentessa fa un cenno con la mano per
farla tacere, e preme uno dei pulsanti di allarme sul bordo del letto. La porta
si apre e Celeno appare nella camera.
“Possiamo procedere,” dice Vega G alla donna
vestita di nero, che annuisce con un cenno quasi meccanico della testa. “Da
questo momento,” continua la Presidentessa, “l’USP si prenderà cura di te,
Juliette.”
“Cura di me? Che cosa? Come? Io non… Le mie
bambine… Ho detto la verità, Presidentessa. Mi creda, la supplico. Non mi
spedisca a Parigi, non-“
“Parigi è una favola,” bisbiglia Vega G,
avvicinandosi alla madre di Baguette. “Noi non puniamo le donne che violano le
regole con il carcere, non siamo come gli animali che popolavano il mondo una
volta. Noi le rieduchiamo, diamo loro una nuova vita. Noi le rendiamo davvero utili all’umanità.”
Celeno ferma velocemente i polsi di Juliette
con due nastri neri. Li lega alle sbarre protettive del letto. Juliette prova a
dimenarsi, ma la guardia appoggia una mano al centro del suo petto, costringendola
a distendersi.
“Che cosa volete farmi?” chiede la donna,
allarmata. “Cosa farete alle mie bambine? Dove sono?”
“L’USP rimarrà al loro fianco per sempre, non
temere. Lo facciamo con tutte le orfane, dopotutto. Vere e false.”
“Volete uccidermi?” grida Juliette. “No, no!”
Muove le braccia e le gambe. Chiama il nome della dottoressa Cheng. Chiede,
inutilmente, aiuto.
“Noi non uccidiamo le donne,” dice Vega G. “Le
rendiamo migliori. Le mettiamo a servizio della nostra grande società. La tua
rieducazione inizia adesso, donna di Malorai. La tua nuova vita come guardia
dell’USP inizia adesso.”
Allunga una mano per accarezzarle i capelli,
biondi e sottili.
Celeno estrae un grande cerotto dal cappuccio
e lo applica sulla fronte di Juliette.
“Presidentessa, ha ancora bisogno di me?”
“No,” risponde Vega G. “Puoi andare ad
organizzare il trasporto. Grazie, Celeno.”
Juliette continua a dimenarsi e a chiedere
aiuto, ma la sua voce e il suo corpo si spengono di secondo in secondo.
“Margot,” riesce a dire un attimo prima di
perdere i sensi.
“Saprà che sei morta come un’eroina,”
sussurra Vega G al suo orecchio. “Oggi Juliette Riford cessa di esistere, mia
cara. Al suo posto nasce F.R. 983.”
Fine Novella
Ohhhhhhhh my goooooooooood... Ma il risvolto della questione è assolutamente intrigante!!! Ti adoro!!! Ma adesso come farò ad aspettare Infinito? Sighhhhhh fai prestoooooo!
RispondiEliminaOh mamma... sono sotto shock!!! Uaooo... sei riuscita a rendere il tutto ancora più intrigante... non vedo l'ora di leggere l'ultimo capitolo della serie... ciao
RispondiEliminaNon me l'aspettavo non vedo l'ora di leggere infinito! Bellissima questa novella!! complimenti!
RispondiEliminal'avevo capito che andava a finir cosììììììììììììì povera Juliette :***
RispondiEliminaperò non vedo l'ora di leggere infinito mamma mia XD
Oddiooooooo! Ma allora..... Non ci posso credere!!!
RispondiEliminaAdesso non riesco ad aspettare più adesso, voglio leggere Infinitooooo!!! *-*
finalmente ho letto questa splendida novella, ed adesso non mi resta che leggere Segreto scaricato il 30/09/2014. FINALMENTE!!!!!
RispondiEliminaChe stordita, ho scritto Segreto invece che Infinito.
RispondiEliminaLa novella è molto intrigante... non vedo l'ora di leggere Infinito!
RispondiEliminaIo, adesso: https://31.media.tumblr.com/658a588b5e50f6881b6d007c3e4f9619/tumblr_inline_mm5sw3GPlP1qz4rgp.gif
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