Benvenuti nel sito-blog dedicato a Segreto, il secondo libro de La Trilogia di Lilac.

martedì 6 maggio 2014

F.R. 983 (La Trilogia di Lilac #2.5)

Se non avete ancora letto Perfetto (La Trilogia di Lilac #1) e Segreto (La Trilogia di Lilac #2), state lontani da questo post.

F.R. 983 (La Trilogia di Lilac #2.5) è una novella che ha (anche) Baguette come protagonista. Gli eventi del Presente sono raccontati da lei, mentre quelli del Passato sono narrati in terza persona.
F.R. 983 è importante e necessaria per chi intende leggere Infinito (La Trilogia di Lilac #3). Nell’ultimo libro della trilogia si parlerà, infatti, di avvenimenti descritti nella novella. La novella stessa, in un certo senso, è il punto di partenza per Infinito. (Quando arriverete alla fine capirete il perché delle mie parole, promesso.)
Il Presente inizia immediatamente dopo la fine di Segreto. Se non ricordate dove finisce la parte di Baguette, in quel libro, vi consiglio di rileggere il capitolo 47.
F.R. 983 rimarrà online per sempre, e sarà per sempre gratuita. Avvisate, quindi, chi non ha letto la versione “speciale” di Segreto: da oggi chiunque può leggere la novella.

Per quanto riguarda il contenuto, cosa posso dire? Nulla, chiaramente :D
Vi auguro una buona lettura. Lasciate un commento alla fine del post se volete, e/o una recensione su Goodreads.
GRAZIE fin da ora :)



© 2013 Alessia Esse. Tutti i diritti riservati.

Presente

Quando Rita mi si avvicina, so già cosa vuole dire: dobbiamo fermarci, dobbiamo trovare un posto in cui accamparci per assistere Stefania. Non siamo abbastanza vicini a Pontenero per poter proseguire, quindi dobbiamo interrompere il viaggio.
Non capisco bene l’italiano, ma il grido di Stefania – la ragazza che dopo la partenza da Borgo Grappa ha iniziato ad avere qualche crampo – è stata comunque comprensibile.
Rita appoggia una mano sul sedile, accanto alle mie spalle, e si piega verso di me.
“I dolori di Stefania sono sempre più forti. Abbiamo bisogno di fermarci.”
Visto?
Sento la voce di Irene, che dice a Stefania – assieme alle altre – di respirare e di rimanere tranquilla.
Sono tutte così, le donne incinte? Gridano allo stesso modo? Soffrono il dolore allo stesso modo? A casa della Vecchia ho letto che i dolori del parto sono simili a quelli delle fratture ossee.
“Baguette, hai sentito cosa ho detto?”
“Sì,” rispondo, continuando a guardare la strada. Afferro il walkie-talkie e premo uno dei pulsanti per aprire la comunicazione.
Thomas, dimmi che il dottore è sveglio.
No, dice lui dopo qualche istante. Avrebbe dovuto svegliarsi quando… No, aspetta. Credo si stia svegliando. Sì. Si sta risvegliando.
Bene. Dobbiamo fermarci. Una delle donne di Roma sta per partorire.
Adesso? La nuova voce è quella di Eloise, alla guida del camion che segue l’autobus. Dove possiamo fermarci, Baguette?
Già, dove? La strada che stiamo percorrendo passa in mezzo ad un bosco. Non vediamo una casa da almeno un’ora.
“Fra trecento metri c’è un bivio,” interviene Irene, avvicinandosi. “Una volta lì, gira a destra e continua per un chilometro. Inizierai a vedere delle case. Ci fermeremo in quel punto.”
Ripeto le sue parole a Thomas e a Eloise e guardo Rita arretrare verso i sedili su cui Stefania è distesa. Irene rimane al mio fianco, invece. In silenzio. A guardarmi.
“Che c’è?” chiedo dopo aver raggiunto il bivio e aver svoltato a destra. I miei occhi sono sulla strada.
“Questo non è il primo parto a cui ci prepariamo,” risponde. “Wilson è molto esperto, e-“
“Wilson uccide le bambine,” ribatto, stringendo il volante fra le mani.
“Stefania è all’ottavo mese. Sappiamo già che sarà un maschio.”
“Oh. Che sollievo.”
“Voglio solo dirti che andrà tutto bene. Questa non è la sua prima gravidanza. Non impiegheremo molto per-“
“Non mi importa,” sbotto. “Non sono interessata alle gravidanze, non voglio avere figli, non mi importa del bambino che sta per nascere.” Faccio un grosso respiro e aggiungo: “Posso continuare a guidare senza essere disturbata?”
Irene non dice nulla per un lungo minuto. “Tua madre è morta, vero? Si chiamava Juliette, se non sbaglio. Non eravamo amiche, ma-“
Le sue parole sono interrotte da un’altra voce.
“Baguette. Baguette.”
Jonah cammina svelto, con un cucciolo fra le braccia. Si ferma accanto a Irene. I suoi occhi sono sgranati.
“Quella signora sta male. Emilio ha detto che nella sua pancia c’è un altro bambino, e ora il bambino vuole uscire, e il dottore deve tagliarle la pancia, così il bambino può nascere. P-Però il bambino è piccolo, non è come noi. E’-E’ vero?”
“Emilio dice un mucchio di sciocchezze,” dico subito, per non farlo spaventare ulteriormente. “Perché non resti qui con me mentre la maestra va a dare una medicina a Stefania per farle passare i dolori? Ti va?”
Jonah sposta lo sguardo su Irene, che annuisce. “Rimani qui con Baguette, d’accordo? Fra qualche istante ci fermeremo e Stefania starà meglio, te lo prometto.”
“Fra le cose che Vega G ci ha dato ci sono i kit per le donne incinte,” le dico quando Jonah si accomoda su un sedile accanto alla porta dell’autobus. “Sai come usarli?”
“Sì,” risponde. “Me l’hanno insegnato alle Scuole di Base. Lo fanno ancora?”
Muovo la testa in senso affermativo. “Inizio a vedere le case,” dico, indicando il panorama davanti all’autobus. “Le donne possono prepararsi a scendere.”
Irene rimane per dirmi quale strada prendere per raggiungere un quartiere in cui potremo fermarci. Vorrei chiederle come fa a conoscere questo posto, più vicino a Pontenero che a Roma, ma un vecchio cartello stradale risponde per lei: siamo a Napoli.
“Andrà tutto bene,” mi dice prima di andare verso il retro dell’autobus.
“Certo, certo,” ribatto con stizza. Con rabbia, forse.
A volte penso che non esista una frase più inutile di ‘Andrà tutto bene’, soprattutto in casi come questo. E’ solo un tentativo di infondere ottimismo in situazioni disperate. Non c’è nulla di sicuro in ‘Andrà tutto bene’. Come puoi essere certa che tutto andrà bene? Quali prove hai?
Come posso credere che per Stefania e per il suo bambino non ci saranno problemi?
Coral ha perso tutti i figli che lei e Mister hanno cercato di mettere al mondo. La sorella di Anna è morta durante il parto. Nel nuovo mondo, migliaia di donne muoiono ogni giorno per dare alla luce una bambina.
Non ci sono certezze, neanche con il kit fornito dall’USP per monitorare la gravidanza e rendere il parto indolore. Per cui ‘Andrà tutto bene’ è una frase inutile, che non ha un vero significato.
“Baguette?” Jonah sussurra il mio nome sporgendosi in avanti, continuando a stringere il cucciolo bianco e nero fra le braccia. “Emilio ha detto che la signora incinta può morire. E’ vero?”
“No.”
“E il dottore non dovrà tagliarle la pancia?”
“No,” dico facendo una smorfia.
Arrivo nel punto di cui Irene ha parlato, e rallento fino a frenare con delicatezza sul cemento. L’auto rossa con a bordo Thomas e l’Inglese si ferma alla mia destra. Il camion guidato con Eloise rimane indietro.
“Andrà tutto bene,” dico con un sorriso a Jonah.
Lui sembra titubante, ma annuisce.
Sarà anche una frase inutile, ma ‘Andrà tutto bene’ ha un suo scopo. Infondere ottimismo, da un lato, e farsi forza, dall’altro. Non ho certezze, ma voglio averle. Non sono ottimista, ma voglio che Jonah lo sia.
E’ un’illusione. Un’illusione che conosco fin troppo bene.

***

Passato

“Come fai a sapere che andrà tutto bene, mamma?”
Margot Riford guida lungo la strada di Malorai che porta all’ospedale. Seduta accanto a sé, con le mani ferme sul pancione, c’è sua madre Juliette. Voleva essere lei a guidare, ma Margot ha insistito. La donna non sa che negli ultimi venti giorni Margot ha percorso più volte il tragitto casa-ospedale, cercando di migliorare il tuo tempo personale e riuscendoci, proprio tre giorni fa.
“Come puoi esserne certa?” insiste la dodicenne bionda.
Juliette le sorride. “Per una donna che ha già avuto una bambina, la possibilità di complicazioni durante la seconda gravidanza diminuisce del 68%. Sessantotto, Margot. Tantissimo. Negli ultimi tre mesi, all’ospedale di Malorai ci sono state solo gravidanze positive, sia per le madri che per le bambine. Quindici successi su quindici. Lo stesso trend si è registrato anche nella nostra regione. Se dico che andrà tutto bene, è perché ne sono certa. I numeri non mentono.”
Margot sa che le parole di sua madre sono vere. Juliette non affida mai nulla al caso, e prima di decidere di dare una sorella alla sua primogenita ha pensato e ripensato più volte ai pro e ai contro.
Tuttavia Margot è preoccupata. Vorrebbe non esserlo – ha fatto numerose prove anche per quanto riguarda ciò che avrebbe detto a sua madre in un momento simile – ma non può farne a meno; da quando Juliette si è svegliata e le ha detto: “Sistema il borsone nella biposto, Baguette. Ci siamo”, lei non è riuscita a fare altro che immaginare il peggio.
Guida fino all’ingresso dell’ospedale, facendo lo stesso tempo di tre giorni fa. Frena con delicatezza mentre l’orologio della biposto annuncia di nuovo l’ora.
“Domani dovremo disinstallarlo,” dice Juliette, indicando il cruscotto della vettura. “Oppure riprogrammarlo per fargli annunciare l’ora ogni cinquanta minuti. Ogni novanta. Che ne dici?”
“Dico che sei troppo tranquilla,” esclama Baguette, agitando le mani. “Sei sicura che la pillola abbia fatto l’effetto giusto? Forse non avresti dovuto prenderla prima di arrivare qui. I dolori sono molto forti?”
Margot apre lo sportello della biposto per scendere e andare incontro alla madre, che si muove lentamente, ma senza alcuna sofferenza sul volto.
“Prendi il borsone,” le dice Juliette. “E comunque sì, sono sicura che la pillola abbia fatto l’effetto giusto. Non preoccuparti, tesoro. Sto bene.”
Margot si avvia verso la porta dell’edificio a tre piani, ma Juliette la ferma. “Non pensarci nemmeno. Le donne al di sotto dei sedici anni non possono accompagnare le madri.”
“Voglio solo portare la tua borsa nella camera,” dice Margot velocemente. Ha provato e riprovato anche questa conversazione nel corso dei nove mesi. “La dottoressa Cheng sa che sarei stata io ad accompagnarti, giusto?”
“Accompagnarmi,” le fa eco sua madre, prendendo il borsone dalle sue mani con un movimento veloce. “Non assistermi. Per quello ci sono le dottoresse e le infermiere.”
“Ma io voglio assistere. Lasciami entrare per parlare con la dottoressa Cheng. E con la direttrice, se necessario. Sono certa di poterle convincere.”
Gli occhi di Juliette, azzurri come quelli di sua figlia, sorridono assieme alle labbra. “Baguette, torna a casa. Ti chiamerò fra qualche ora. D’accordo?”
“No,” insiste l’altra. “Mamma, io voglio rimanere con te. Per favore.”
Nonostante la pillola presa a casa, il volto di Juliette non riesce a nascondere il fastidio provocato da una nuova fitta, più forte delle precedenti.
“Che c’è? Stai male? Sta peggiorando, vero? Resta qui, vado a chiamare la dottoressa.”
“Margot, ti prego,” dice Juliette, afferrandola per la mano. “Non insistere. Le donne al di sotto dei sedici anni non possono entrare in ospedale. E’ la regola, e questo non è il momento per violare le regole, chiaro? Torna a casa, e resta lì ad aspettare la mia telefonata.”
Juliette si avvicina per darle un bacio sulla guancia e per accarezzarle i capelli, lisci e lunghi come i suoi. “Io e Lucy saremo qui ad aspettarti.”
Margot si aggrappa alla madre in un lungo abbraccio, appoggiando con delicatezza la testa sul pancione. “Ci vediamo presto, sorellina,” sussurra alla bambina che ha finora visto solo attraverso il monitor di controllo che l’USP fornisce alle future madri per monitorare autonomamente la gravidanza. “Ti voglio già tanto bene, lo sai?”
“Certo che lo sa,” risponde Juliette. “Infatti non vede l’ora di uscire per conoscerti.”
La donna da un ultimo abbraccio a sua figlia proprio quando le porte dell’ospedale si aprono. La dottoressa Cheng cammina svelta assieme a due infermiere, una delle quali porta con sé una sedia a rotelle.
“Voglio bene anche a te, mamma,” dice Baguette, tenendo la mano libera di Juliette fra le sue. Si alza sulle punte per darle un bacio sulla guancia. “Chiamami appena hai finito, ok?”

***

Presente

Thomas ha portato Stefania in una delle case illese controllate in precedenza da Rita e Irene. L’interno è ancora arredato, e una delle camere da letto sarà il luogo in cui il bambino nascerà. Nelle altre abitazioni, invece, le donne di Roma stanno sistemando le loro cose.
E’ molto probabile che passeremo la notte qui.
Controllo che l’autobus sia vuoto, e poi vado ad aprire il retro del camion. I fori sul tetto hanno permesso agli animali di respirare comodamente durante il viaggio, ma voglio che abbiano ancora più ossigeno. Il sole picchia forte, e non è escluso che chieda a Thomas e ad Eloise di aiutarmi a farli scendere. L’ambiente è fresco – grazie, tecnologia dell’USP – ma non possono rimanere per ore fermi in un luogo chiuso.
So che Irene si aspettava che la seguissi all’interno della casa. Non l’ha detto ad alta voce, l’ho capito dal modo in cui mi ha guardata quando siamo scese dall’autobus.
Ma no, grazie. Non intendo assistere al parto di Stefania. Ho affidato alla madre di Lilac il kit fornito da Vega G, e con il dottore sveglio e attivo so che non avranno problemi a far nascere il bambino.
Osservo per mezzora gli animali impegnati a mangiare l’erba che Rita e le guardie della Presidentessa hanno sistemato accanto alle gabbie e quando ne ho abbastanza salgo sull’autobus per prendere due barattoli di pillole. Li affido a Carolina, chiedendole di dare una capsula di cibo ad ognuno. Le spiego che contiene l’equivalente di un pasto completo, nulla a che vedere con le misere porzioni dei romani.
Durante il viaggio, Carolina si è avvicinata più volte a me, cercando di parlarmi. Di penetrare quel muro che ancora c’è fra di noi. So che non ha colpe per ciò che mi è successo. So che se non avesse ubbidito a Jackson lui le avrebbe riservato il mio stesso trattamento. Tuttavia non riesco ad addolcirmi. Forse se mi sforzassi potrei farlo, potrei abbattere il muro e provare ad esserle amica, ma la verità è che il mio lato buono è in letargo, adesso.
Prima di lasciarle i barattoli, trattengo qualche pillola per me, e vado a cercare Thomas ed Eloise. Il quartiere in cui ci troviamo è molto piccolo. Deve essere stato uno di quei posti in cui tutti conoscevano tutti. Le case sono basse, scolorite dal tempo, con le finestre in legno rovinato e i tetti di vecchie tegole rosse.
“Spero non sia il primo,” dico quando, dopo dieci minuti di ricerca, trovo Eloise e Thomas in un vicolo stretto. Si stanno baciando. “Non voglio rovinare il vostro primo bacio. Non voglio che fra vent’anni, quando ripenserete a questo momento, diciate ‘Era tutto perfetto, fino a che Baguette non è arrivata ad interromperci’. Quindi mentite, se proprio dovete. Ma non ditemi che è il primo.”
Margot Riford e l’incapacità di tacere in certi momenti: un’autobiografia.
Thomas scuote velocemente la testa. “Non hai rovinato nulla.”
Eloise ha le guance rosse. “E’ la verità.”
“Quindi c’è già stato un bacio fra te e Occhi di Ghiaccio,” ribatto, appoggiando le mani sui fianchi. “E non me ne hai parlato. Tu e Lilac avete una brutta abitudine in comune, ma non sono qui per parlare di questo. Voglio solo dirvi che andrò a fare una passeggiata con Jonah. Posso lasciarvi a capo degli altri?”
“Non vuoi rimanere?” chiede Eloise.
“Qui? A guardarvi mentre vi baciate?”
Ora è Thomas ad avvampare.
“No,” risponde lei, sorridendo. “In casa. Rita ha detto che non impiegheranno molto. Stefania è già-“
“Non mi interessa,” dico prima che finisca. “Con lei ci sono il dottore e Irene. E’ un parto, non uno spettacolo ad ingresso libero.”
Sta per dirmi qualcos’altro, ma giro le spalle e torno alla casa dalle finestre di legno, quella in cui Stefania si sta preparando per partorire. I bambini si rincorrono, cantando una canzone in italiano. So che è in italiano perché non capisco neppure una parola, e per questo li detesto.
Un po’, ma li detesto.
Jonah è fra di loro. Non canta, probabilmente perché non conosce le parole.
Lo chiamo e lui si gira subito, allontanandosi dagli altri quando gli faccio segno di raggiungermi.
“Tieni,” gli dico, mostrandogli una capsula bianca. Afferro la bottiglia d’acqua dalla tracolla e lo guardo mentre manda giù il suo pasto. “Ti va di fare una passeggiata con me?” chiedo dopo che ha bevuto un lungo sorso d’acqua.
“Dove?”
“Non lo so. Potremmo esplorare il quartiere,” dico, indicando le case che ci circondano. “Scoprire un tesoro.”
“Come i tesori dei pirati? Una volta papà ha detto che nel mare ci sono i tesori dei pirati, ma io non posso andare senza un adulto, altrimenti i pesci mi mangiano i piedi. E’ vero?”
“Se lo ha detto Michael allora è vero.”
“Michael è il mio papà.”
“Esatto. Se lo ha detto lui, allora è vero che nel mare ci sono i tesori dei pirati. Qui però non c’è il mare. I tesori sono quelli delle case abbandonate.”
Lui annuisce dopo qualche secondo. “Ok. Andiamo a fare una passeggiata.”
Camminiamo per qualche minuto - ogni secondo scandito da una domanda di Jonah sulle case, su chi le abitava, sull’erba che spunta dai marciapiedi - fino a raggiungere la fine della stradina.
“Ho una cosa per te,” gli dico appoggiandomi al muro. “Un piccolo tesoro. Vuoi vederlo?”
“Che cosa?” chiede, allargando gli occhi. “E’ una sorpresa?”
“Esatto.” Apro la tracolla e dal suo fondo tiro fuori la strana trappola che lui ha costruito con l’aiuto di Coral. “Ricordi cos’è?”
“Sì,” esclama. “Io ne ho uno uguale, lo sai? L’ho fatto da solo, con le foglie intrecciate. Guarda.” Infila l’indice in uno dei piccoli fori. “Fai anche tu così. Metti il dito qui.”
“Dobbiamo tirare, giusto?” chiedo dopo aver fatto come dice.
“Sì, ma ora sei in trappola, non puoi scappare anche se tiri il dito. Visto?” chiede, ridendo e muovendo la mano. “Ora dobbiamo camminare così.”
Torniamo indietro - la mia mano destra legata alla sua sinistra per mezzo del cilindro sottile - ma invece di andare dritto guido Jonah in un’altra stradina.
“Baguette, è vero che quella signora sta facendo nascere un bambino adesso?” mi domanda dopo un po’.
“Sì.” Raggiungiamo una piccola piazzetta che affaccia su un dirupo pieno di vegetazione. “Però nessuno le taglierà la pancia.”
“E allora come farà il bambino ad uscire?”
“Il dottore e la maestra Irene useranno una tecnica particolare,” dico, pronunciando le prime parole che mi vengono in mente. “Andrà tutto bene, vedrai.”
Jonah si guarda attorno, e cammina fino alla ringhiera che protegge la piazzetta dallo strapiombo.
“E poi, quando il bambino nasce, diventa grande come me?”
“Esatto.”
“Baguette,” dice dopo un lungo silenzio, “sono preoccupato.”
“Preoccupato?” Sollevo le sopracciglia. “A sei anni non dovresti essere ‘preoccupato’. Dove hai imparato questa parola?”
“Emilio ha detto che la signora può morire,” dice a voce bassa, invece di rispondere.
“Emilio dice un mucchio di sciocchezze, te l’ho detto. Non devi credergli.”
“Quindi le mamme non muoiono mai?” chiede, alzando la testa per guardarmi negli occhi.
“A volte accade,” rispondo, piegandomi sulle ginocchia. “Ma non sarà questo il caso. Wilson e la maestra sono bravi a far nascere i bambini.”
“Tu ce l’hai una mamma?” Libera il dito dal cilindro e si appoggia alla ringhiera con la schiena.
“Tutti hanno una mamma.”
“La tua come si chiama?”
“Juliette,” rispondo con un filo di voce. “Si chiamava Juliette.”
***

Passato

Dal momento in cui entra nell’ospedale di Malorai a quello in cui Juliette Riford mette al mondo sua figlia passano circa tre ore. Il parto avviene in maniera naturale, senza che la dottoressa Cheng e le infermiere del reparto Procreazione debbano intervenire per aiutare la madre o la bambina.
Juliette è fisicamente distrutta alla fine di quelle tre ore, ma ogni dolore sparisce quando la dottoressa sistema fra le sue braccia una bambina avvolta in un telo tiepido. Le minuscole mani sono strette in due pugni sul petto, e le gambe sottili sono piegate verso l’alto. Il viso della neonata è arrossato, le palpebre sono chiuse e gonfie, ma le labbra sottili sembrano curvate in un sorriso.
“Ciao, amore mio,” sussurra Juliette a sua figlia. “Benvenuta, tesoro. Benvenuta.”
Gli occhi della donna si riempiono di lacrime. Appoggia le labbra sulla delicata fronte di sua figlia, che apre e chiude lentamente uno dei due piccoli pugni, come a salutare la sua mamma.
“E’ sana, vero? Sta bene?” chiede la donna alla dottoressa, la quale annuisce.
“Fra poco inizieremo gli esami di rito, ma il parto è stato un successo, per cui non ho dubbi che la neonata sia in grande forma, come sua sorella e sua madre.”
“Perfetto,” sussurra Juliette. Accarezza il viso della bambina con il pollice destro, osservando ogni centimetro della sua pelle alla ricerca di un’imperfezione e trovando, invece, solo tanta bellezza. “Il suo nome è Lucy,” dice alla dottoressa. “Lucy Riford.”
“Buongiorno, Lucy Riford. Le donne di Malorai ti danno il benvenuto nel nuovo mondo.”
Una delle infermiere si avvicina alla dottoressa. Le sussurra qualcosa all’orecchio.
“La piccola Lucy verrà per un po’ con me,” dice la dottoressa a Juliette. “Dobbiamo dare il via agli esami genetici. Conosci la procedura, vero?”
“Certo. Datemi solo il tempo di rimettermi in piedi, voglio-“
“Oh, no. La tua presenza non sarà necessaria.”
“Come?”
L’infermiera afferra la bambina dalle braccia di Juliette prima che la neomamma possa rendersi conto di ciò che accade.
“Torneremo fra poco,” dice la dottoressa Cheng sorridendo. “Nel frattempo condurremo qualche esame anche su di te.”
Juliette annuisce mentre si allunga verso l’infermiera per sistemare il telo tiepido attorno alla bambina.
“Ci vediamo fra poco, Lucy. La tua mamma rimane qui ad aspettarti.”
L’infermiera esce rapidamente dalla stanza.
Juliette appoggia il capo sul cuscino, stremata ma felice. “Grazie, Nadia. Grazie,” dice alla dottoressa, cercando e stringendo la sua mano.
La dottoressa sorride di nuovo. “Adesso cerca di riposare,” mormora, applicando un piccolo cerotto a rapido rilascio sul polso di Juliette. “Tornerò fra poco.”
“Nel frattempo chiamerò a casa per dire a Margot che è andato tutto bene.” Juliette muove la testa per cercare le sue cose, ma si accorge che sono state portate via. “Voglio dirle che sto bene, che Lucy è sana.”
Le parole sono biascicate ora, segno che il contenuto del cerotto è già entrato in circolo.
“Glielo dirai più tardi,” dice la dottoressa, liberandosi della mano con cui Juliette cerca di trattenerla. “Adesso devi dormire.”
“Perché?” chiede Juliette, sforzandosi di rimanere ad occhi aperti. “Hai detto che devi fare degli esami, Nadia. Perché mi sento come se… Che cosa c’è in quel cerotto? Non è questa la prassi.”
“Devi dormire,” ripete la dottoressa. La sua voce è diversa da quella rilassata di poco fa. Ora è tesa, fredda.
“No,” sussurra Juliette. “Devo chiamare a casa, Margot deve sapere che sto bene. E Lucy… Lucy...”
Il buio indotto dal potente sonnifero l’avvolge prima che possa continuare. La dottoressa Cheng sistema un cerotto a rilascio rapido anche sull’altro polso, prima di uscire dalla stanza.

***

Presente

Eloise grida il mio nome da lontano, ma con così tanta forza che mi è impossibile non sentirlo.
Afferro Jonah fra le braccia e inizio a correre. Durante il tragitto, nella mia mente si accavallano decine di scenari orribili: Vega G ci ha fatto seguire dalle sue guardie, per prendere i bambini; gli animali sono morti; Gianmaria e X sono risorti.
“Che succede?” chiedo affannata quando mi fermo accanto a Eloise a Thomas.
“Stefania,” dice lei, sull’orlo delle lacrime. “C’è un problema con il bambino. Irene e Rita hanno bisogno di te, non-“
“Dov’è il dottore?” chiedo, lasciando andare Jonah. “Perché hanno bisogno di me?”
“Wilson non si è ancora completamente ripreso,” risponde Thomas. “Il bambino ha il cordone ombelicale attorcigliato al collo. Irene ha chiesto di te.”
“Io non sono un medico. Cosa posso-“
“Baguette!” Rita si affaccia dalla porta. “Corri. Immediatamente.”
Non voglio entrare in casa, non voglio interessarmi al parto di Stefania, ma le donne di Roma mi guardano come se fossi il capo. Forse lo sono. Forse, ai loro occhi, sono un leader.
E’ per questo che vado verso Rita. Perché le donne e i bambini si aspettano che lo faccia.
Nella camera da letto in cui Thomas ha portato Stefania, Wilson è accasciato su una vecchia poltrona piena di polvere, e Irene è inginocchiata sul letto fra le gambe di Stefania.
“Non spingere,” le sta dicendo. “Non devi spingere, anche se ne senti il bisogno.”
Stefania è pallida. Sta piangendo.
“Baguette è qui,” dice Rita.
Irene si volta per un secondo verso di me, prima di indicare la sommità del letto. “Vai accanto a lei. Parlale. Io e Rita dobbiamo liberare il collo del bambino.”
“No. Non esiste. Ci sono altre cinquanta donne che possono farlo. Io non posso. No.”
Il volto di Irene è attraversato da un lampo di fuoco. Per un attimo è come se vedessi la maschera a forma di teschio sulla sua testa.
“Ho bisogno di qualcuno che sappia usare il kit dell’USP,” dice in francese. “All’interno della scatola ci sono oggetti che non conosco. Non so cosa fare, tu sì. Io e Rita dobbiamo occuparci del bambino, tu dovrai occuparti di lei.”
“Wilson non riesce a stare in piedi, non possiamo affidargli un’operazione così delicata,” dice Rita, avvicinandosi al letto. “Abbiamo bisogno di te.”
E’ assurdo. Io non ho esperienza e non voglio averne. Né diretta né indiretta. Sto per dire a Irene e Rita che Eloise è più qualificata. Che lei potrà certamente aiutarle, ma Stefania allunga un braccio verso di me.
“Per favore,” dice in italiano. Una delle poche cose che ho imparato in queste settimane. “Il mio bambino.”
Odio che le sue parole arrivino al mio cuore. Vorrei prendere a pugni il muro e andarmene, ma il pianto di Stefania mi incolla i piedi al pavimento.
Ha pianto così, mia madre, prima di chiudere gli occhi per sempre? Chi c’era con lei mentre cercava di far nascere mia sorella?
“Per favore,” ripete. “Aiutami.”
“Ok, d’accordo,” dico, agitando le mani. “Ma sappiate che vi odio tutte.”
Il kit dell’USP contiene tutto ciò che occorre ad una donna per partorire lontano da un ospedale. Teli sterilizzati, guanti, cerotti a rilascio rapido per tranquillizzare la madre. E il Connettore Materno.
“Anch’io avevo il cordone ombelicale attorno al collo prima di nascere,” dico a Stefania quando mi avvicino al letto per aprire il Connettore. “Tre giri, ed ora eccomi qui. Andrà tutto bene.” Dalla confezione sterile prendo il Connettore Materno. Sistemo una delle estremità sulla tempia umida di Stefania, e passo l’altra a Irene. “Attacca questa estremità sul bambino.”
Afferro uno dei cerotti, e lo applico sul polso di Stefania.
“Il cerotto ti calmerà,” le dico in inglese, “e il Connettore trasmetterà la tua calma al bambino. Non sono solo i vostri corpi ad essere connessi, Stefania, ma anche le vostre menti. Il Connettore lo permette. In questo momento tu e il tuo bambino siete una cosa sola. Ora voglio che tu prenda la mia mano e ti concentri. Irene sa cosa sta facendo. Lei e Rita lavoreranno sul cordone ombelicale, e quando il collo di tuo figlio sarà libero potrai riprendere a spingere. Chiaro?”
Alle mie spalle, Irene e Rita parlano in italiano. Non ho idea di cosa stiano dicendo, ma spero che si sbrighino.
“Non spingere,” dico a Stefania quando il suo volto si trasforma a causa del dolore. “Non ancora. Rilassati, lascia lavorare il cerotto. Respira con calma. Tranquilla, ok? Andrà tutto bene.”
La sua mano è stretta attorno alla mia.
“Come lo chiamerai?” domando, usando la mano libera per allontanare il suo viso da Irene. Non c’è bisogno che noti il colorito bluastro della testa di suo figlio. “Hai già scelto un nome?”
“N-no,” dice in un mezzo singhiozzo. “Io non… Non sono le madri a scegliere i n-nomi. E’ Gianmaria,” dice fra i denti. “E’ lui che-“
“Beh, da oggi Gianmaria non sceglierà più i nomi. Voglio che pensi al nome del tuo bambino, ora. Che sia tu a sceglierlo. Immagina il suo viso, e dagli un nome. Fallo per me, andiamo.”
Mi rendo conto che il cerotto sta facendo effetto perché la presa attorno alla mia mano diventa più lenta, e i segni del dolore fisico spariscono dal suo viso.
“A che punto siamo?” chiedo in francese a Irene.
“Ci siamo quasi,” risponde per lei Rita. “Ora dobbiamo solo… Ok, fatto. Fatto!”
Sorridono entrambe, quando la testa del bambino riprende subito un colorito normale.
“Adesso può riprendere a spingere,” mi dice Irene. “Sorreggile le schiena, e continua a dirle che andrà tutto bene.”
Faccio subito come dice. Porto via il cerotto a rilascio rapido e mi sistemo dietro le spalle di Stefania; sostenendola, lasciando che mi stritoli le falangi.
“Puoi farcela. Sei forte, Stefania. Puoi farcela.”
Non so per quanto tempo resto dietro di lei a parlarle. Non so neppure in che modo riesca ad infonderle coraggio e ottimismo, ma succede. Un miracolo.
Ad un certo punto vedo il piccolo corpicino fra le mani di Irene. Lei e Rita sono commosse, e parlano velocemente a Stefania. Probabilmente per dirle che tutto è andato come si deve.
Passano pochi istanti - il tempo di rendermi conto che anche il mio viso è bagnato a causa delle lacrime - e ci rendiamo tutte e quattro conto che c’è qualcosa di relativamente strano nella creatura che Stefania ha appena fatto nascere. Non è un bambino, come tutti ci aspettavamo.
E’ una bambina.


***

Passato

Juliette prova ad aprire gli occhi quando sente le voci. Ci prova, ma le palpebre sembrano essere incollate fra di loro.
E’ ancora in ospedale, una delle voci appartiene alla dottoressa Cheng. Le altre sembrano nuove, invece. Non riesce a riconoscerle.
Juliette prova di nuovo a sollevare le palpebre, e al quarto tentativo – dopo un minuto o dopo un’ora – ci riesce. La vista è appannata, ma è in grado di mettere a fuoco le sagome di quattro donne. Una vestita di bianco. Due di nero. L’altra, più bassa, indossa qualcosa di colore viola.
Juliette muove le labbra. Prova a parlare. “N-Nadia. Dov’è Lucy? M-Margot. Le mie bambine. Che cosa… Che cosa hai fatto? Le mie… Le mie…”
La dottoressa si avvicina al letto.
Juliette avverte un pizzico freddo sul polso, e i suoi occhi si chiudono di nuovo.

***

Presente

Irene è l’unica che riesce a trovarmi.
Dopo aver mostrato a Rita come utilizzare la parte del kit relativa agli esami per la bambina e a quelli per la madre, sono uscita dalla casa e sono andata via. Ho ignorato i visi e le voci delle donne di Roma, che mi chiedevano come fosse andato il parto. Ho ignorato Eloise, mi è venuta dietro fino a quando Thomas le ha detto di lasciarmi stare (grazie, Thomas).
Ho cercato un posto lontano dalla felicità altrui, ma Irene riesce a trovarmi.
Si siede al mio fianco, sotto un albero dal tronco enorme.
“Non voglio parlare,” le dico strappando fili d’erba. “Se sei qui per farmi parlare, puoi tornare dagli altri.”
Lei non dice nulla.
“E comunque quel kit è identico a quello che hai imparato ad usare a scuola a dieci anni. Non è mai cambiato da quando l’USP l’ha creato. Per cui so cos’hai cercato di fare quando mi hai fatta chiamare. Brava,” dico, battendo le mani due volte per inscenare un applauso. “Sei un genio. Bravissima.”
Irene continua a tacere.
“Io odio queste cose. Non voglio essere coinvolta. Ho fatto tanto per rimanerne fuori, e poi… Lilac lo sa, se è questa la tua paura. Sa che non voglio figli. Perché uno dovrebbe volerne, in fondo? In questo mondo, in queste condizioni. Mille pericoli, mille problemi.”
Strappo un ciuffo d’erba con più forza, portando via anche una piccola zolla di terra che si sbriciola sui miei pantaloni.
“Hai cercato di farmi cambiare idea, l’ho capito, ma non voglio che queste cose mi riguardino. Non sono Stefania, non sono una madre. Non la conosco, così come non conosco le altre donne di Roma. Carolina avrebbe potuto farsi stringere la mano al mio posto.”
Piego le gambe verso l’alto, e appoggio il mento sulle ginocchia.
“Sei qui per dirmi che dovremo accamparci per la notte? In tal caso sappi che l’avevo già immaginato, ma non-“
“Tu sei una vigliacca.”
Irene muove la testa per trovare i miei occhi, e ripete ciò che ha appena detto.
“Tu sei una vigliacca e una bugiarda.”
“Che cosa? Che cosa hai detto?”
“Hai sentito bene cosa ho detto. Neanche sei ore fa mi hai detto che tu e Lilac dovete cambiare il mondo, ma era una bugia, vero? Perché ciò che dici adesso, il modo in cui ti stai comportando non può appartenere a quella donna sull’autobus. Sei una vigliacca, Baguette.”
Le sue parole mi fanno rabbia.
“Pensa quello che vuoi,” dico, stringendo i pugni. “Tu non mi conosci. Tu non sai cosa ho vissuto. Tu non-“
“Io so che lì,” dice indicando le case, “ci sono delle donne che hanno messo la loro vita e quella dei loro figli nelle tue mani. Sono donne spaventate e insicure, che hanno bisogno di qualcuno che le guidi, di qualcuno che sappia cos’è il coraggio. Hanno bisogno di qualcuno in grado di mettere da parte i demoni del passato, Baguette, e di guardare al futuro. Pensi che i giorni che verranno saranno fatti di musica e caramelle? Pensi che assistere ad un parto sia la cosa più complicata in questo mondo? Se è questo il tuo atteggiamento, se pensi di essere superiore a questo mondo e a quelle donne dimmelo ora, per piacere. Perché non intendo lasciarle nelle tue mani. Non intendo lasciare mia figlia nelle tue mani.”
Lo sguardo che le lancio è di odio puro. “Con che coraggio parli di Lilac. Tu,” dico, puntandole un dito contro. “Proprio tu, che l’hai abbandonata.”
“Vuoi fare a gara a chi ha più colpe nei suoi confronti? Vinco io, non credere che non lo sappia.”
Irene inclina la testa sulla spalla destra. Un gesto che mi ricorda Francesca.
“Nulla riporterà indietro tua madre,” dice con calma. “Né il rancore che covi dentro, né la paura. Pensi che lei volesse questo per te? Pensi che ti vorrebbe debole e spaventata come sei ora?”
“Io non saprò mai quello che Juliette voleva per me. Sai perché? Perché non me l’ha mai detto! Perché le sue ultime parole per me sono state ‘Vai a casa’. Tu vuoi che io sia felice per Stefania, ma perché devo esserlo? Perché devo essere felice per qualcosa che a me è stato negato? Per qualcosa che non avrò mai? Perché devo interessarmene?”
“Perché è solo così che potrai combattere Vega G,” dice lei, prendendomi per mano. “Perché è solo così che potrai affrontare gli ostacoli che ti si presenteranno davanti. E credimi, Margot: ci saranno. Se volti le spalle al dolore non fai altro che renderlo più forte, quando invece devi essere tu a diventarlo.”
“Quindi cosa dovrei fare, dimenticare mia madre?” chiedo, con la voce che trema e gli occhi pieni di lacrime. “Dimenticare la sorella che non ho mai visto, dimenticare che-“
“Per essere forti non bisogna dimenticare,” ribatte, prendendomi per mano. “Pensi che io sia diventata Brunelleschi dimenticando Lilac e Michael? E’ grazie all’amore per loro che ho resistito. E’ per mia figlia che sono andata avanti. Non devi dimenticare Juliette, e non devi dimenticare tua sorella. E non puoi voltare le spalle al dolore che la loro morte ha provocato. Devi cavalcarlo, come un’onda agitata. Devi utilizzarlo per crescere, per raggiungere l’obiettivo tuo e di Lilac. Quel dolore deve essere la base del tuo coraggio, altrimenti tua madre e tua sorella saranno morte invano.”
Mi giro verso il tronco per nascondere le lacrime, ma so che ad Irene non sfuggono.
“Io non sono una vigliacca,” le dico dopo un lungo momento. “So che incontrerò tanti ostacoli, e ho intenzione di superarli.”
“E io ho intenzione di aiutarti a farlo,” dice lei annuendo, “ma ho bisogno che tu rimanga di fronte all’ostacolo per affrontarlo. Senza scappare, senza farti condizionare dal passato.”
“D’accordo. Va bene.”
“Ne sei convinta? O lo dici solo per accontentarmi?”
“Lo dico perché è la verità,” rispondo. “Non sono una vigliacca e non voglio che il dolore mi costringa ad esserlo. Sono arrabbiata, però; sono piena di rancore, e questo impiegherà di più per sparire.”
“La rabbia può essere incanalata in qualcosa di positivo,” dice lei. “Io ne so qualcosa.”
“Grazie,” sussurro. “Sia per quello che hai detto, sia per il modo in cui l’hai detto.”
Irene annuisce. “So che sei stata felice di assistere al parto di Stefania, e che la nascita della bambina ti ha commossa. So che cerchi di mostrarti indifferente, ma in realtà non lo sei.”
Scrollo le spalle, passando il dorso della mano sulla guancia per asciugare il viso.  
“Forse non mi sono commossa per la nascita. Forse le lacrime sono state solo la conseguenza della presa sulle mie dita. Vedi,” dico, mostrandogliele, “credo che questo sia un livido.”
Irene sorride. “La bambina è sana. Tutti i test che Rita ha eseguito hanno avuto esito negativo.”
“Bene. Ho notato che ha un mucchio di capelli, e si muove come se volesse ballare. Avete già dato le vitamine a Stefania? Sono nel kit, e nell’autobus ne abbiamo quindici barattoli. Tre capsule al giorno per il primo mese, e poi due fino al terzo e poi una fino al sesto.”
“Sì. Ora stanno riposando entrambe.”
“Il dottore?”
“Dorme anche lui. Le mie erbe hanno avuto un effetto potente su di lui.”
“Come ha fatto a non rendersi conto che Stefania aspettava una bimba?” domando. “Che cosa sarebbe successo se avesse partorito a Roma?”
“A volte capita che l’ecografia dia un risultato errato. Accadeva anche prima della Sindrome.”
“E’ accaduto altre volte a Roma?” chiedo, scrutando i suoi occhi alla ricerca di una risposta che non arriva subito. “Sono nate delle bambine per errore, vero?”
Lei annuisce.
“Le hanno uccise,” sussurro. “Wilson le ha uccise.”
Irene scuote la testa. “Wilson ha ubbidito agli ordini, come ogni cittadino. Non era sua, la scelta.”
“Quante?” dico, battendo velocemente le palpebre per non cedere di nuovo al pianto.
“Otto.”
Abbasso gli occhi sull’erba, e rimango così a riflettere.
“Torniamo dagli altri,” le dico ad un tratto. “Oggi è un giorno di festa. Di vera festa. Dobbiamo festeggiare.” Mi alzo in piedi, e allungo la mano verso di lei per aiutarla a fare la stessa cosa.
“Festeggiare?”
“Sì. Abbiamo la libertà, una nuova vita e uno stereo pieno di musica. Abbiamo parecchie ragioni per essere felici.”

Il mattino dopo ci rimettiamo in viaggio per Pontenero.
Le donne sono serene, e a turno si alzano dai loro posti sull’autobus per venire in avanti, verso il sedile più comodo, quello che ospita Stefania e sua figlia.
Eloise mi precede, nell’auto assieme a Irene a al dottore. Thomas è alla guida del grande camion alle nostre spalle.
La festa di ieri sera ha messo tutti di buon umore. Abbiamo cantato e ballato attorno ad un fuoco acceso da Rita e Mariagrazia. E anche se Stefania e la sua bambina sono rimaste in casa e hanno dormito per tutto il tempo, è stato come se anche loro fossero con noi.
La loro gioia si è estesa anche a noi, superando il dolore e i brutti ricordi, le ferite e le paure.
Ho giocato con Jonah, e l’ho osservato mentre faceva provare ai suoi amici la trappola che ha costruito con Coral nella caverna. Ho finto di non vedere i baci dolci e impacciati di Eloise e Thomas. Ho mangiato per la prima volta un uovo sodo, assieme a Irene e Rita.
E ho pensato a mia madre e a mia sorella.
Penso a loro anche adesso che l’autobus si muove con calma verso Sud. Mi dico che sì, “Andrà tutto bene” è una frase inutile, ma forse anche Juliette lo sapeva, e il suo discorso durante il viaggio verso l’ospedale non aveva alcun fondamento statistico.
Mi ha detto che sarebbe andato tutto bene perché sono quelle le parole che dici a tua figlia per evitare che abbia paura. Per evitare che pensi al peggio. E forse è proprio quella la sua eredità per me.
Non avere paura, Margot. Andrà tutto bene.

***

Passato

Stavolta, quando Juliette riapre gli occhi, si accorge che c’è qualcuno alla destra del letto.
Una guardia dell’USP. Indossa un vestito nero, lungo fino al ginocchio e aderente, dotato di un cappuccio che copre la testa e i capelli.
“Il suo nome è Celeno. Tecnicamente è F.R. 955, ma Celeno è molto più semplice. E’ una delle mie guardie personali.”
Juliette sposta la testa per seguire la voce. Alla sua sinistra, con addosso un cappotto viola, c’è Vega G.
“Lasciaci pure,” dice la fondatrice dell’USP alla guardia. “Voglio parlarle in privato.”
“Certo, Presidentessa.”
Celeno, alta e magra, cammina a passo svelto e composto verso la porta.
Juliette osserva le finestre che affacciano sulla strada, e nota che il cielo è completamente buio.
“Che ora è? Che cosa è successo? Come…”
Prova a mettersi seduta, e ci riesce con fatica. Si sente debole, e non sa se è a causa del parto o del sonnifero che la dottoressa le ha dato contro la sua volontà.
Si volta verso Vega G, che se ne sta in piedi, con le mani raccolte in corrispondenza dello stomaco e gli occhi truccati di verde acido. L’unica luce nella stanza è quella che proviene da una piccola lampada appoggiata sul comodino.
“Come ti senti?” La voce di Vega G, calma e profonda, è la voce di chi esige una risposta.
“Perché è qui, Presidentessa? Che cosa sta succedendo? Nadia… Dov’è-“
“La piccola Lucy è in compagnia della dottoressa Cheng,” risponde Vega G. “Margot Riford è nella vostra abitazione di via Melanne. Da sola. Stanno entrambe bene,” aggiunge, appoggiando la mano coperta da un guanto bianco sulla spalla di Juliette.
“Perché è qui? Perché non sono stata dimessa? Voglio chiamare Margot. Voglio-“
“Sono qui per farti delle domande. Se le tue risposte mi piaceranno, potrai tornare a casa da Margot assieme alla bambina nata questa mattina. Tutto chiaro?”
“N-no,” dice Juliette, confusa. “Che cosa vuole chiedermi? Che cosa…” Afferra un bicchiere pieno d’acqua dal comodino e lo manda giù in due sorsi, reggendolo con due mani perché teme di farlo cadere. Cerca di pensare velocemente mentre beve, e ci riesce con un altro grande sforzo.
Vega G si allontana per afferrare una sedia e portarla accanto al letto. Si accomoda e accavalla le gambe, seguendo i movimenti di Juliette fino a quando il bicchiere torna vuoto sul comodino.
“Juliette, sai cosa succede alle donne che violano i decreti dell’USP? Nello specifico, quelli relativi agli oggetti proibiti?”
“Co-Come?”
“Rispondi alla mia domanda, donna di Malorai.”
“Sono un tecnico informatico,” dice Juliette. “Al mio laboratorio arrivano centinaia di oggetti proibiti ogni anno, quindi sì, conosco bene la normativa. Ogni settimana devo catalogarli e consegnarli alle guardie della regione, che provvederanno ad inviarli a Parigi per farli distruggere.”
Vega G annuisce. “Questa è la normativa, ma sappiamo entrambe che le cose non vanno sempre così, giusto?”
Juliette impallidisce.
“Eri curiosa, vero? Lo capisco,” dice la Presidentessa sorridendo. “Gli oggetti proibiti possono apparire più interessanti, e nel tuo lavoro la curiosità è importante, suppongo. Motori ad aria, tablet, l’intero impianto energetico di Malorai. Ti occupi brillantemente di tante cose, quindi è plausibile che fra i tuoi interessi ci sia anche ciò che non è consentito.”
“Non accadrà più,” dice subito Juliette, scuotendo la testa. “Glielo giuro, Presidentessa. Non accadrà più. Consegnerò alle guardie regionali ogni oggetto proibito che ho tenuto al laboratorio, e-“
“Lo so, Juliette. So bene che non accadrà più. Tranquilla. Non sono qui per interrogarti su un paio di iPod e una vecchia stampante.”
“Allora perché-“
“Dodici anni fa, nel mese di Settembre, hai inviato un ordine al Magazzino Energetico di Bruxelles, ricordi?”
“A Bruxelles?” domanda Juliette per prendere tempo. “No. Non credo.”
“Era un ordine riguardante schede di memoria,” dice la Presidentessa. “Saltò all’occhio del Controllo Interno per due ragioni. Primo, all’epoca dell’ordine eri incinta, e alle donne incinte è vietato lavorare sugli impianti energetici. Secondo, non si trattava di materiale legato all’energia solare, ma a quella corporea. In disuso da almeno vent’anni. Le mie domande sono queste, dunque: Perché hai fatto quell’ordine? A cosa ti sono servite quelle due schede di memoria attivabili tramite il calore corporeo?”
“Io… Io non ricordo.”
“Non ti credo,” ribatte la Presidentessa con calma. “Il tuo ordine è l’unico in tutta la Francia da quando l’energia solare ha soppiantato definitivamente quella corporea. Come puoi non ricordare? Hai bisogno di un incentivo? Eccone uno: gli oggetti proibiti che hai trattenuto nel corso degli anni… e il carcere di Parigi.”
“No!” esclama subito Juliette. “No, Presidentessa. No. Le sto dicendo la verità, non-“
“Non ti credo!”
Vega G si alza dalla sedia e chiude la parte bassa del viso di Juliette in una mano, stringendo in corrispondenza delle labbra fino ad ottenere un lamento di dolore.
“Voglio la verità, Juliette Riford,” sibila. “E siccome oggi mi sento buona, ti darò un altro incentivo: le donne credono che la procreazione femminile sia rischiosa per la madre e per la bambina, e in realtà lo è, ma una o due volte su dieci. Non cinque o sei come vi facciamo credere. Sai dove vanno le donne che vengono date per morte dopo il parto? Sai che fine fanno?”
Juliette non riesce a parlare, e non solo perché la Presidentessa glielo impedisce con la sua presa. I suoi pensieri sono congelati dalla paura.
“Fanno la fine che farai tu se non mi dirai la verità. Fanno la fine che spetta alle donne che violano le direttive. Che cosa hai fatto con quelle schede?” chiede a denti stretti, lasciando andare la presa. “Cosa hai costruito?”
“Nulla, lo giuro,” balbetta Juliette fra le lacrime. “Fui io ad ordinarle, ma fu la dottoressa Zinna a richiederle. La farmacista di Malorai, Francesca Zinna. Non a-aveva accesso a quel tipo di materiale energetico con la s-sua licenza, e per questo chiese a me di inviare l’ordine. E’ la verità,” continua, con il cuore in gola. “Lo giuro, Presidentessa. E’ la verità.”
“Perché? A cosa le servivano?”
“D-Disse che voleva potenziare un tablet per regalarlo a sua figlia, che in quei mesi si trovava a Londra.”
La Presidentessa la osserva con un’espressione carica di disprezzo. “L’aiutasti a creare due tablet alimentati per mezzo del calore corporeo, non è vero?”
“No, no. Lo giuro. No. Mi limitai ad acquistare le schede per lei,” dice Juliette piangendo. “Mi pagò con un mucchio di soldi, e io li accettai senza fare domande. Pensai alla bambina che portavo dentro: se fossi morta durante il parto, le avrei lasciato qualcosa per andare avanti. Non sto mentendo. Lo giuro. Lo giuro.”
Vega G accenna un sorriso. “Per ora basta così,” mormora. “Riprenderemo la conversazione molto presto.”
“Cosa… Cosa significa? Perché? Le ho detto la verità, non so altr-”
La Presidentessa fa un cenno con la mano per farla tacere, e preme uno dei pulsanti di allarme sul bordo del letto. La porta si apre e Celeno appare nella camera.
“Possiamo procedere,” dice Vega G alla donna vestita di nero, che annuisce con un cenno quasi meccanico della testa. “Da questo momento,” continua la Presidentessa, “l’USP si prenderà cura di te, Juliette.”
“Cura di me? Che cosa? Come? Io non… Le mie bambine… Ho detto la verità, Presidentessa. Mi creda, la supplico. Non mi spedisca a Parigi, non-“
“Parigi è una favola,” bisbiglia Vega G, avvicinandosi alla madre di Baguette. “Noi non puniamo le donne che violano le regole con il carcere, non siamo come gli animali che popolavano il mondo una volta. Noi le rieduchiamo, diamo loro una nuova vita. Noi le rendiamo davvero utili all’umanità.”
Celeno ferma velocemente i polsi di Juliette con due nastri neri. Li lega alle sbarre protettive del letto. Juliette prova a dimenarsi, ma la guardia appoggia una mano al centro del suo petto, costringendola a distendersi.
“Che cosa volete farmi?” chiede la donna, allarmata. “Cosa farete alle mie bambine? Dove sono?”
“L’USP rimarrà al loro fianco per sempre, non temere. Lo facciamo con tutte le orfane, dopotutto. Vere e false.”
“Volete uccidermi?” grida Juliette. “No, no!” Muove le braccia e le gambe. Chiama il nome della dottoressa Cheng. Chiede, inutilmente, aiuto.
“Noi non uccidiamo le donne,” dice Vega G. “Le rendiamo migliori. Le mettiamo a servizio della nostra grande società. La tua rieducazione inizia adesso, donna di Malorai. La tua nuova vita come guardia dell’USP inizia adesso.”
Allunga una mano per accarezzarle i capelli, biondi e sottili.
Celeno estrae un grande cerotto dal cappuccio e lo applica sulla fronte di Juliette.
“Presidentessa, ha ancora bisogno di me?”
“No,” risponde Vega G. “Puoi andare ad organizzare il trasporto. Grazie, Celeno.”
Juliette continua a dimenarsi e a chiedere aiuto, ma la sua voce e il suo corpo si spengono di secondo in secondo.
“Margot,” riesce a dire un attimo prima di perdere i sensi.
“Saprà che sei morta come un’eroina,” sussurra Vega G al suo orecchio. “Oggi Juliette Riford cessa di esistere, mia cara. Al suo posto nasce F.R. 983.”



Fine Novella


9 commenti:

  1. Ohhhhhhhh my goooooooooood... Ma il risvolto della questione è assolutamente intrigante!!! Ti adoro!!! Ma adesso come farò ad aspettare Infinito? Sighhhhhh fai prestoooooo!

    RispondiElimina
  2. Oh mamma... sono sotto shock!!! Uaooo... sei riuscita a rendere il tutto ancora più intrigante... non vedo l'ora di leggere l'ultimo capitolo della serie... ciao

    RispondiElimina
  3. Non me l'aspettavo non vedo l'ora di leggere infinito! Bellissima questa novella!! complimenti!

    RispondiElimina
  4. l'avevo capito che andava a finir cosììììììììììììì povera Juliette :***
    però non vedo l'ora di leggere infinito mamma mia XD

    RispondiElimina
  5. Oddiooooooo! Ma allora..... Non ci posso credere!!!
    Adesso non riesco ad aspettare più adesso, voglio leggere Infinitooooo!!! *-*

    RispondiElimina
  6. finalmente ho letto questa splendida novella, ed adesso non mi resta che leggere Segreto scaricato il 30/09/2014. FINALMENTE!!!!!

    RispondiElimina
  7. Che stordita, ho scritto Segreto invece che Infinito.

    RispondiElimina
  8. La novella è molto intrigante... non vedo l'ora di leggere Infinito!

    RispondiElimina
  9. Io, adesso: https://31.media.tumblr.com/658a588b5e50f6881b6d007c3e4f9619/tumblr_inline_mm5sw3GPlP1qz4rgp.gif

    RispondiElimina

Lascia un commento, grazie :)