Lilac e Baguette sono chiuse in una stanza a parlare.
Cosa accade nell'atrio della vecchia università?
Io non sono come Lilac: elegante, forte, impavida.
E non sono come Baguette: simpatica, cocciuta, piena di
iniziativa.
Io ho paura anche della mia stessa ombra. Dubito di me
stessa continuamente, e spesso evito di fare o dire qualcosa perché ho paura di
fare o dire la cosa sbagliata.
Preferisco rimanere ai margini. Osservare ciò che accade
dalle retrovie. Gioire e soffrire con gli altri, se necessario, ma facendo
attenzione a non espormi.
Vorrei cambiare. Vorrei essere più ‘Lilac e Baguette’, e
meno ‘Eloise’. Ma – guarda caso – ho paura di sbagliare. Loro ci sono nate,
così. Io dovrei diventarci, e non credo di poterlo fare. Non credo di poter
cambiare ciò che sono.
***
“Di cosa devono p-parlare?” chiede Thomas dopo aver chiuso
la porta della stanza in cui Baguette e Lilac si trovano. “Lo sai?”
Faccio segno di no muovendo la testa.
“Ora noi-“
“Vuoi restare qui?”
Thomas allarga gli occhi quando si rende conto di avermi
interrotta. Mi guarda, in attesa che vada avanti, e non si accorge –
fortunatamente – dell’effetto che il suo sguardo ha su di me. Mi intimorisce,
ma al tempo stesso voglio che continui a guardarmi così. Avverto una sensazione
simile alla paura – la stessa che avverto da quando l’ho visto entrare nella
nostra stanza con Lilac fra le braccia, al nostro arrivo – ma ad essa si
mescola un’altra sensazione. Nuova, e per questo carica di fascino.
Spaventata e affascinata: ecco come mi sento quando sono con
lui.
“Vuoi vedere il palazzo?” chiede, indicando con la torcia il
corridoio che si trova all’altro lato dell’atrio. “P-posso mostrarti le vecchie
aule, oppure possiamo-“
“Meglio se restiamo qui,” dico senza alcuna pausa fra una
parola e l’altra. “Se Baguette e Lilac avessero bisogno di me… Preferisco
rimanere qui.”
Thomas inizia ad annuire quando dico ‘Meglio’. “D-D’accordo.
Ok. Possiamo rimanere qui.”
Camminiamo fino ai gradini. Lui si piega per sedersi. I suoi
occhi, ora, sono sulle grandi porte della vecchia università. Verso il buio
della notte. Mi siedo anch’io, ad almeno un metro da lui, e aspetto. Che dica
qualcosa, che muova una mano, che spenga la torcia e accenda la candela.
Non ho il coraggio di farmi avanti. E’ sempre lui a parlare
per primo.
Conto fino a dieci in silenzio, ma Thomas non dice nulla.
Conto fino a venti, e poi fino a quaranta.
Lui continua a guardare davanti a sé. La torcia è puntata
verso il suo petto. Ne osservo la luce debole con la coda dell’occhio, sperando
che Thomas non se ne accorga.
Arrivo fino a novanta, e il silenzio continua ad essere un
rumore fortissimo.
Talmente forte che quando arrivo a cento, chiudo gli occhi,
faccio un grande respiro (grazie, Lilac) e provo a parlare.
“Grazie per non essere andato al quinto piano.”
Thomas si muove lentamente, girandosi verso di me. Non parla
subito. Resta a guardarmi per un momento così lungo che mi fa temere di aver
detto la cosa sbagliata.
“P-prego,” dice alla fine. “P-prego, Eloise.”
“Perché parli così?” domando, non riuscendo a trattenermi. “Perché
ripeti le lettere all’inizio di certe parole?”
“M-mi succede quando sono nervoso,” risponde, facendo più di
un tentativo. Quasi come se le parole fossero incastrate fra la lingua e i
denti.
“L’hai fatto anche quando mi hai accompagnata da Jonah,”
sussurro. “E una volta durante la colazione, nella mensa.”
Il cuore mi batte forte. Non sono mai stata così diretta con
lui.
Mentre aspetto che dica qualcosa, mi rendo conto del
significato delle sue parole: Thomas è nervoso quando è con me. Io lo rendo
nervoso. Perché continuo a parlare, allora? E’ meglio che stia zitta.
Thomas non dice nulla; si muove per accendere la candela,
sfregando un cerino sul pavimento, e per spegnere la torcia. Quando la fiamma è
abbastanza grande, noto che le sue guance sono rosse.
Sono felice che ci sia tutta questa distanza fra di noi. Mi
sento piccola al suo fianco. Mi sento in colpa all’idea di renderlo nervoso.
“Qui una volta studiavano cose che avevano a che fare con lo
sport,” dice, quando temo che il silenzio possa far crollare il palazzo.
“Come?” chiedo con il cuore in gola.
“L’anno scorso io e Brunelleschi abbiamo fatto un inventario
di tutti i libri della vecchia università, prima di portarli alla biblioteca. Ho
trovato centinaia di volumi dedicati al corpo umano e allo sport. Sistema
nervoso, funzionamento dei muscoli, anatomia. Tecniche sportive, materie
economiche. Brunelleschi ha detto che probabilmente qui studiavano cose utili a
chi praticava lo sport. I campi da tennis e le piscine del Foro Italico erano
conosciuti in tutto il mondo, lo sapevi?”
“No,” sussurro, sperando che non si accorga del mio stupore.
Stupore dovuto al fatto che non ha commesso neanche un errore di pronuncia, e
al fatto che non conosco il significato di ciò che ha detto. Sistema nervoso, anatomia. Tecniche sportive.
A Pontenero ho letto tanti libri, ma nulla che parlasse di sport.
Lui probabilmente conosce un mucchio di cose che io non imparerò mai. Se
gestisce la biblioteca con la madre di Lilac vuol dire che legge tanto. Forse è
per questo che ha quel difetto di pronuncia.
Anche se ha detto che gli capita solo quando è nervoso.
Aspetto che sia Thomas a parlare. Non voglio dire qualcosa
che possa renderlo nervoso.
Mi vergogno tanto ad ammetterlo, ma mi piace quando sbaglia
a pronunciare una parola. Sembra tanto vulnerabile in quei pochi secondi. Lontano
dal fucile con cui se ne sta seduto di fronte alla nostra stanza. Lontano dagli
occhi di ghiaccio con i quali ci osserva per tutto il giorno.
Quando parla male, mi ricorda me stessa. Anch’io mi sento
vulnerabile a volte. Anch’io sono spesso nervosa, prima di parlare. Solo che io
evito di parlare, per paura di dire qualcosa di sconveniente. Lui lo fa
comunque, anche se le parole escono nel verso sbagliato.
“Prima si organizzavano delle manifestazioni sportive, con
atleti che nuotavano, oppure correvano, oppure giocavano a tennis,” dice ad un
tratto. “Dove c’è l’orto adesso, giocavano uno sport chiamato calcio. Nello
s-stadio dei Marmi, invece, il rugby. Era uno sport inglese. Si g-giocava con
una palla ovale, non rotonda. La palla si passava con le mani, e poi…”
Thomas si ferma all’improvviso, forse perché si accorge del
cambiamento nel mio viso
“Che c’è?” chiede.
“Mia madre è nata in Inghilterra,” rispondo mentre intreccio
le dita. “Hai detto che il rugby era uno sport inglese, e questo mi ha fatto
pensare a lei.”
“Te ne ha parlato? Sai come si gioca?”
Faccio ancora segno di no con la testa.
Lui resta a guardarmi. Le guance non sono più rosse come
prima, ma gli occhi non hanno perso il solito potere. Mi terrorizzano e mi
attraggono.
“Dov’è tua madre?” gli chiedo in un respiro, di nuovo senza
pensare.
“E’ morta quando sono nato. Non l’ho mai conosciuta.”
“Mi dispiace,” ribatto subito, portando la mano alle labbra
come per afferrare la mia domanda indelicata.
Non solo non l’afferro, chiedo addirittura qualcos’altro.
“E tuo padre?”
“N-non ho idea di chi s-sia,” dice lui e stavolta, quando
pronuncia male due parole, non mi guarda negli occhi. “Gianmaria n-non vuole
che gli o-orfani si attacchino agli uomini. Se una donna muore durante il
p-parto, il bambino viene cresciuto dalle altre. Dalle altre d-donne.”
Vorrei dirgli che Gianmaria è crudele, e che in una parte
nascosta del mio cuore sogno di vederlo morire. Ma Thomas è una guardia, e io
sono una prigioniera. Non farei del bene a nessuno, se gli esprimessi le mie
opinioni.
“Mi dispiace,” ripeto.
“Lo so,” dice con un sorriso.
Quando Thomas sorride – me ne sono accorta qualche giorno
fa, mentre tornavo dal bagno e lui era sulla poltrona, intento a disegnare –
gli spunta una piccola fossetta sul mento. E’ strana, perché di solito le
fossette sono sulle guance. E’ particolare, e contribuisce a quell’insieme di cose
che lo rendono affascinante. Carino. Forse dolce.
“Lo sai?” chiedo.
“Sì,” dice annuendo. “Tu hai una madre e un p-padre, e per
questo sei dispiaciuta per me. Perché sai cos’è una famiglia, e ti dispiace che
io non ne abbia una. Ma io non so cos’è. Io non so cosa vuol dire avere una
madre e un padre, quindi non p-posso c-capire. Non posso f-fare un confronto.”
Non so che dire. Non so come interpretare le sue parole. E’
nervoso? Credo di sì, visto che ha sbagliato quattro parole. E’ stata colpa
mia? Non lo so.
“Chi si è occupato di te? Con chi sei cresciuto?”
“All’inizio con le altre donne. Sette giorni in una
settimana, sette mamme diverse. Ognuna c-con le sue regole, ognuna con le sue
raccomandazioni. Poi, quando ho compiuto nove anni, Brunelleschi si è accorto che
mi piaceva disegnare, e mi ha preso con sé. Mi ha insegnato tante tecniche, mi
ha portato nella zona rossa per disegnare sui muri, o sulle vecchie auto. Sono
stato fortunato con lei. Con lui,” si corregge subito. “Con lui,” ripete.
Faccio finta di non notare l’errore. Gli faccio credere di
non sapere che Brunelleschi è una donna, anche se lo ha chiaramente ammesso.
Poco fa ha detto che Gianmaria non vuole che gli orfani crescano con gli
uomini.
“Con Brunelleschi è quasi come se avessi una famiglia,”
continua. “Quasi.”
Thomas sposta gli occhi sui gradini e incrocia le dita delle
mani dopo aver appoggiato i gomiti sulle ginocchia. Sembra triste, cupo.
“Mi dispiace che tu sia qui,” dice ad un tratto. Scioglie le
dita e si gira per guardarmi. “Ti ho vista piangere, so che piangi perché vuoi
andare via. E mi dispiace. E lo dico perché so cosa vuol dire stare qui anche
se non vuoi. Dico ‘mi dispiace’ come tu l’hai detto prima. Perché posso capire.
Posso fare un confronto.”
Vorrei tanto dire ciò che penso, ma ho paura perfino di
respirare, adesso.
“Mi dispiace che tu sia qui perché so che a te dispiace, però…
però…” Si ferma, si passa una mano sulla testa rasata. “P-però… N-n-niente,”
dice, facendo un gesto brusco con la mano, come per dare un colpo all’aria.
“M-meglio di no. N-niente.”
Ho così tanta voglia di sapere cosa c’è dopo quel ‘però’ che
mi sento sul punto di vomitare.
Conto fino a dieci, così velocemente che la lista di numeri
suona come uncinqudieci nella mia testa. Inspiro, provo a ripetere i numeri
lentamente, e ad ogni cifra mi dico che posso farcela. Che posso provare ad
essere come Lilac e Baguette. Forte e coraggiosa. Piena di iniziativa e cocciuta.
“Co-cosa volevi dire?” chiedo quando supero il dieci e mi
ritrovo al diciotto.
Thomas sorride di nuovo. “Co-cosa? Sei nervosa anche tu?”
Muovo la testa per dire sì.
“Cosa volevi dire?” ripeto, stavolta senza errori. “Ti
dispiace che io mi trovi nella città eterna, però…?”
Thomas non risponde. Resta a guardarmi fino a farmi temere
di aver sbagliato tutto. Resta immobile, ad un metro da me, ed è come se mi
studiasse con gli occhi.
Ho freddo, ma non è a causa della bassa temperatura.
Ho paura, ma non so più di cosa. Del mio guardiano? Di ciò
che ha detto? Di ciò che vorrei dicesse? Di ciò che sento per lui, per i suoi
occhi, per la sua strana fossetta e per i suoi errori di pronuncia?
“Mi dispiace che tu sia qui,” dice ad un tratto, scivolando
verso di me con un movimento lento. “Mi d-dispiace perché so che dispiace a
t-te, però sono anche f-felice che tu sia qui. E non solo qui a Roma, ma qui qui, ora, adesso. Con me. T-tu, Eloise… Tu
sei t-tanto bella. Lo sai? Sei tanto bella, Eloise, e io… io b-balbetto quando
sono con te perché quando ti v-v-vedo non capisco più niente e... t-ti dispiace
che stia dicendo queste cose? Vuoi che mi fermi?”
“No,” dico, scuotendo la testa tre volte, e sentendola
vuota. “No. Non mi dispiace. No.”
Lui sorride. “Sono felice di a-averti qui. Io e te per conto
nostro, s-senza interruzioni. Lontano dagli altri.”
“Io-“
Mi fermo prima di andare avanti. E’ la mente a chiedermelo,
ad impormelo. Mi dice di frenarmi, di non espormi, di rimanere nelle retrovie.
Ma è davvero così importante, in fondo? E’ davvero così
importante ciò che la mia mente pensa, se le parole vogliono andare per conto
proprio?
Sii forte, mi ha detto Michael. Sii forte, per te stessa e
per Jonah.
Come posso essere forte se non metto a tacere la paura? Se
non mi lascio andare, almeno per una volta?
“Sono felice di essere qui con te, Thomas.”
Osservo il suo viso mentre pronuncio ogni parola, alla
ricerca di un segnale che possa farmi capire che sto sbagliando. Lui, però,
muove le labbra piene in un sorriso, facendomi capire che sono sulla strada
giusta. Si muove verso di me fino a che i suoi pantaloni sfiorano le mie gambe
scoperte.
Il dum-dum del mio cuore è fortissimo.
Faccio girare gli ingranaggi del cervello, nella speranza di
riuscire a dire qualcos’altro, qualcosa che gli faccia capire come mi sento,
come lui mi fa sentire, ma non ci riesco.
Osservo il suo viso squadrato - la fossetta sul mento e gli
zigomi alti, gli occhi limpidi e le piccole lentiggini sul naso - e non riesco
a pensare.
Forse la chiave di tutto è questo: non pensare.
Forse anche Lilac ha trovato la stessa soluzione, quando ha
lasciato Elia al sesto piano del palazzone ed è corsa da Baguette. Forse anche
loro due, adesso, hanno smesso di pensare e stanno seguendo esclusivamente i
loro cuori.
Il cuore prima di tutto. Il mio unico desiderio. Il mio
unico sogno.
Per vivere senza paura e senza insicurezze.
“Tu sei la mia guardia,” sussurro. “E sei un soldato di
Roma. Io non sono nessuno. Io sono una… una prigioniera.”
Lo vedo muovere una mano verso l’alto. Il suo gesto è lento,
ma il mio no. Mi scosto velocemente, terrorizzata dall’idea che il suo palmo
possa trovare la mia guancia.
Thomas è sorpreso, e ritrae subito la mano.
“Non avere p-paura di me,” sussurra. “Non voglio farti del
male.”
“Scusa.”
“Mi dispiace che tu sia una prigioniera, qui,” dice dopo
essere rimasto in silenzio per un lungo momento. “Ma ora non lo sei. Stasera,
stanotte, in q-questo palazzo, non lo sei. Con me, non lo sei. Non lo s-sarai
mai. Possiamo fare finta di non essere a Roma, per questa s-sera? Io non sarò
una guardia, e tu non sarai una prigioniera. Possiamo?”
“E domani? Cosa accadrà domani?”
Stavolta, quando Thomas solleva la mano verso di me, non mi
sposto.
Sento prima i suoi polpastrelli sulla guancia, e poi
l’intero palmo. Sento il suo respiro profondo. Sento il mio cuore sciogliersi.
Non so se è lui ad attirarmi a sé, o se sono io a cercare il
suo petto, a trasformarmi in una versione più piccola di me stessa, perfetta
per le sue braccia.
“Cosa accadrà domani?” chiedo di nuovo, qualche minuto dopo,
sul tessuto morbido della sua camicia.
Thomas si muove per guardarmi negli occhi.
“Domani sarai ancora tanto b-bella,” dice. “E io continuerò
ad essere dispiaciuto e felice che t-tu sia qui.”
Avrei voluto allungare questo extra, raggiungendo un momento molto speciale per Thomas ed Eloise.
Se lo avessi fatto, però, avrei anticipato cose che riguardano la novella F.R. 983.
Quando posterò pubblicamente la novella su questo sito, posterò anche nuovi momenti fra Thomas ed Eloise.
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